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Giulia Mafai: non sono la moda, sono un costume vivente

La costumista di De Sica, Monicelli e Mastroianni presenta il suo libro, “Storia del Costume dall’Età Romana al Settecento”, all’Accademia di Costume e Moda.

Il costume è il racconto di come attraverso le mode si siano manifestate diverse epoche. La costumista Giulia Mafai sfida il pubblico a riconoscere i periodi storici guardando i vestiti, per dimostrare che il costume è l’espressione più semplice di una certa cultura.

Umile e curiosa, la Mafai si è fatta strada nel mondo del cinema fino a diventare una delle più importanti costumiste italiane. Ha vestito i personaggi del La Ciociara” di De Sica, de “Il Commissario” di Comenicini e, al contempo, ha lavorato anche con Tinto Brass in Yankee”.

Oggi, a 82 anni portati con nonchalance, ha visto e studiato più o meno tutto quello che veniva indossato in passato. L’ha documentato e raccontato in un libro, “Storia del Costume dall’Età Romana al Settecento” (Skirà 2012) . Un libro sui costumi scritto da una costumista. Finalmente un’addetta ai lavori che racconta un mondo fatto d’immagini e creatività sulla base di un know how unico.

NON SOLO COSTUME NELL’ANTICA ROMA. Partendo dal libro di Mafai, la storica del costume Sofia Gnoli mette in evidenza il proliferare di mode già prima del ‘700, periodo che istituzionalmente ne segna la nascita. Le capricciose e incostanti matrone romane cambiano gusto in fretta. Gli scultori erano costretti a eseguire il volto in marmo Pario bianco mentre un marmo di colore diverso era destinato all’acconciatura, così da poter essere sostituito.

La moda nell’antica Roma parla anche al maschile. Esempio lampante ne è il passaggio, visibile nell’look degli imperatori, dalla rasatura efeba alla Giulio Cesare alla barba lunga sfoggiata da Marco Aurelio.

MERETRICI E CORTIGIANE. È impossibile non notare la verità della Repubblica di Venezia: donne dal seno scoperto, o completamente nude chiacchierano e girano nella Laguna dall’alto delle loro zeppe. Può capitare di vederne anche tre o quattro sulla stessa terrazza, vestite d’oro e seta, intente a fare gli occhioni dolci ai giovani e ai buoni intenzionati.
“Se non ci fosse richiesta – afferma la scrittrice transessuale Beatriz su Vice Magazine – non faremmo questo lavoro”. Non deve stupire, allora, la tolleranza antico-romana per la prostituzione. Vestite di un rosso-mosto ottenuto dalla robbia, le meretrici soddisfano le necessità dei turisti e frenano le intemperanze dei giovani.

L’ABBIGLIAMENTO DEI LEBBROSI. Inguaribile e pericolosamente contagiosa, la lebbra è la malattia più diffusa nel medioevo. I lebbrosi devono, quindi, abbandonare ogni contatto con le persone sane, vivere in piccoli gruppi nei boschi e mangiare bacche selvatiche. Il loro vestito è una sorta di burka ante litteram: tabarri, larghi cappucci scuri, cappelli di paglia, guanti e stracci nascondano il corpo martoriato dal male. Il suono di un campanaccio di terracotta legata al collo avverte la loro presenza in prossimità di zone abitate.

Ecco come dipinti, sculture, incisioni e testi letterari diventano il punto di partenza del racconto di Giulia Mafai per testimoniare come la cultura occidentale abbia elaborato il proprio modo di apparire, di distinguere i diversi livelli sociali e di affermare l’immagine di sé.

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