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L’ignoranza è sulla punta della lingua…italiana

Indugia la lingua italiana, avvilita e depressa.
Chiusa nei confini di uno spazio astratto chiamato “patria”, medita sul quel soffio di vita che ancora le resta.
Questa “vecchia Signora”, abbandonata da “figli” in affido a “tata Europa”, non esce più: l’aria inquinata dai gas di termini stranieri è deleteria per il suo apparato respiratorio e le frequenti piogge di castronerie grammaticali indeboliscono il corpo, ormai tanto gracile.
Tace, allora. Forse, ormai, non sente nemmeno più.
È passato il tempo in cui, fasciata in un abito di frasari eleganti, si mostrava con un copricapo di costrutti chiari e coerenti, fonte di plauso per i dialetti del volgo, che ammiravano quel suo filo di perle di saggezza intorno al collo. Una robusta stola di analisi logica, poi, velava sempre le sue spalle, dritte come spade nella roccia di regole inflessibili, e le altre lingue adoravano la musicalità dei suoi suoni e ne invidiavano l’estro, tanto era spontaneo e intrigante.
Ma è arrivato il momento in cui “l’Europa chiede” e la “sventurata risponde” e, siccome da esportare c’è ben poco, s’introducono termini esotici, che sanno tanto di “progresso”.

Adesso, quindi, non va più bene niente, oggi «è tutto ok». I fine settimana sono «week end tra un happy hour e una disco», «il relax del break è un’oretta di fitness», mentre una persona autorevole è “very important”. «Si paga cash, mica in contanti», e «se non cambi look te lo scordi di essere glam, perché sei out, my darling». Il mestiere più antico del mondo si esercita da “escort” e se resti in “mutande”, chiamale “slip”, così sei “sexy” comunque.
Il francese, poi… vuoi mettere lo “charme” dei “cugini d’Oltralpe”?
E allora «via quel trucco e giù col maquillage», «hai visto la réclame? Quest’anno va il tailleur sotto al paltò». «La rosetta è finita, se vuole ho la baguette», «il cornetto è vintage, mangia un bel croissant». «Datti al découpage e trova un escamotage alla routine del tuo ménage». «Che gaffe, senza il bon ton!», «Leggi la brochure e, voilà, diventi parte dell’elite». «Non sei graziosa, sei un bijou», «macché parrucchiere, il mio è un coiffeur», «non è una spogliarellista, ma fa gare di burlesque».

Gli italiani si adeguano, dunque, e se da un lato inseriscono nel linguaggio quotidiano una valanga di termini stranieri, dall’altro incrementano l’utilizzo di alcune espressioni “caserecce”, adoperate nel linguaggio comune come espressioni di un moderno carosello verbale.
Invece di” è soppiantato da“piuttosto che”, non si dice più “ovviamente”, ma “infatti sì” e il “no, grazie” è un generalizzato “ma anche no”. L’inasprimento di una legge è un “giro di vite”, la più banale chiacchierata è un “dialogo costruttivo” e una “larga intesa” si raggiunge quando l’interlocutore non accetta compromessi.
All’occorrenza, però, quando è fondamentale mostrarsi acculturati per impressionare una platea, si stendono lenzuola di sproloqui lessicali, si ascoltano interminabili “salmoni” e si mangiano “arringhe” marinate. La predica viene da un “palpito”, la disattenzione è solo un “lapis” involontario e si saluta tutti “indiscretamente”.
“Dulcis in fondo”, poi, si svecchia il vetusto latino proclamando che no, “in claris non fit interpretation“.

Il nostro “antiquato” italiano tenta di sopravvivere al pubblico ludibrio, ma l’esiguo gruppo di “medici con le frontiere” che veglia su di lui, da solo, non riesce a tenerlo in vita.
Basterebbe un’iniezione di vocaboli semplici al giorno e una flebo di congiuntivi al posto giusto da parte di tutti per lasciarlo esistere ancora, perché una “lingua sciolta” sarà anche l’accesso al mondo globalizzato, ma ignorare l’italiano significa mordere, tristemente, la lingua della propria storia.

 

 

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