“Antonio Ligabue: il van Gogh con la moto rossa”: questo il titolo dell’articolo del 12 marzo 1961 comparso su “Epoca” a firma dalla giornalista, saggista e scrittrice italiana Grazia Livi a seguito alla memorabile mostra alla Barcaccia di Roma presentata da Giancarlo Vigorelli. L’esposizione romana consacrava il lavoro di Antonio Ligabue e veicolava per la prima volta, oltre i confini emiliani, l’asprezza espressionista del pittore di Gualtieri.
Oggi, in occasione della mostra Antonio Ligabue (che aprirà al pubblico il prossimo 25 marzo al Castello aragonese di Conversano), dal 1 al 12 marzo, presso la mostra “Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum” a Palazzo Bonaparte di Roma sarà ospitato un dialogo del tutto inedito tra due Autoritratti proprio dei due artisti, così tanto distanti quanto simili per destino e voglia di riscatto.
Un confronto ideato da Francesco Negri per onorare il lavoro svolto dal padre Sergio nel corso della sua vita.
Potrebbe risultare difficile immaginare delle affinità, o anche solo dei semplici punti di contatto, tra due autori tanto diversi: se Van Gogh è dotato di uno spirito superiore che lo porta oltre il reale e nella sua arte è riscontrabile una matrice letteraria, Ligabue mette il suo istinto davanti alla natura e avvia un convulso e furioso dialogo con il colore.
E proprio nell’uso del colore, nell’inquietudine inesorabile che li pervade e in quel disadattamento personale che riescono a superare solo dipingendo vanno ricercati i motivi di tangenza tra i due artisti, al di là della tecnica pittorica e di quanto abbiano rappresentato sulla tela.
Più l’anima è straziata, più i colori diventano brillanti.
Vincent in una lettera alla sorella Willemien scrive: “Più divento brutto, vecchio, cattivo, malato e povero, più desidero riscattarmi facendo colori brillanti, ben accostati e splendenti” e lo stesso vale per Ligabue, il cui animo soffocato dal dolore si libera dagli incubi che ha dentro, avviando un convulso e furioso dialogo con il colore, creando capolavori di un’arte primitiva e istintiva e di una brutalità senza filtri.
Van Gogh e Ligabue, esclusi da una società creata dagli uomini, condividono una solitudine senza appigli che riesce a scongiurare la disperazione solo attraverso la pittura.
Non stupisce dunque, come documenta questo confronto, che entrambi sentano la necessità di riprodurre la propria immagine più volte, come a voler dare prova della loro esistenza in un mondo che li ha emarginati e con lo sguardo penetrante rivolto allo spettatore.
“Dialoghi o conflitti fra la coscienza e la percezione visiva del proprio volto … Ed è proprio in questo senso che alcuni dei grandi espressionisti, oltre a Van Gogh, hanno analizzato se stessi davanti a queste superfici dipingendo decine e decine di autoritratti, con l’intento di riversare in essi le angosce e i tormenti che li affliggevano” scrive Sergio Negri, il maggior esperto di Antonio Ligabue, nel catalogo generale dei dipinti a sua cura edito da Electa nel 2002.
Ragione e istinto; conoscenza raffinata e foga animale; un’unica disperata solitudine. I due artisti sono accomunati da un’unica disperata solitudine, uno stato generato dalla disillusione di credere alla bontà della natura, entrambi vedono l’universo per quello che è e ne dipingono la brutalità senza filtri.
Due artisti che, seppur in maniera diversa, col proprio linguaggio e proprie opere sono stati in grado ugualmente di penetrare l’anima e di nutrire la fantasia degli spettatori.
Photo credits Courtesy of Press Office