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Modelle-influencer: la “rivincita” delle mannequin?

Fin dalla genesi della storia della moda e dell’introduzione delle sfilate, il ruolo di ‘modella‘ era circoscritto ai catwalks. D’altronde le più grandi sono diventate tali grazie a delle peculiarità fisiche o doti innate come l’eleganza. E’ anche vero che il fenomeno social è scoppiato da pochi anni e con esso anche il mondo del fashion ha subìto una concreta evoluzione.Basta riflettere sulle modelle di oggi per le quali non è più sufficiente esibire la propria falcata per farsi riconoscere. Infatti,  postare foto sui profili social risulta essere una vetrina forse migliore. Una foto per ogni attività quotidiana e milioni di like per ciascuna foto.

Ed ecco che la top model acquista followers e seguaci pervasi da un senso di emulazione che rasenta l’ossessione: hair-stayling simile, guardaroba come il suo o quasi, foto in posa come quelle postate, con tanto di ritocco Photoshop!

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La trasformazione è avvenuta: la mannequin è diventata una influencer che ‘influenza’, per l’appunto, stili di vita altrui, mode e oggetti. Dobbiamo comprare una borsa nuova? Non sappiamo dove fare il nostro party di Natale? Diamo un’occhiata al profilo Instagram di Gigi Hadid per vedere cosa lei consiglia seppur non apertamente. Già, perché è questo il bello: nessun influencer dice esattamente cosa fare, ma si limita a mostrare quello che fa riscuotendo enorme successo. All’improvviso tutti vogliono ciò che indossano loro, vogliono possedere le loro cose e vogliono vivere come loro.

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Ma Gigi Hadid è solo una delle modelle che nell’ultimo periodo sono entrate nella classifica che conferisce lo scettro di influencer. Al primo posto c’è Kendall Jenner, che ha più di un milione di adepti  che pendono dalle sue labbra o dai suoi selfie come dir si voglia.A seguire Cara Delevingne e le sorelle Hadid che dal 2012 stanno conquistando le passerelle internazionali degne di questo nome. Più sono famose sui social e più gli stilisti le vogliono, consapevoli dell’ascendente sui consumatori. E’ anche vero però che essere dive dei social è un po’ come essere ricche a Monopoli: ci sarà sempre quella più giovane, più carina, più Facebook addicted che spodesterà una sua collega e di conseguenza è chiaro che il business del fashion è una ruota che gira.kendall

 

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Restano fuori dal podio delle nuove influencer, figure del calibro di Sara Sampaio, Bar Rafaeli, Karlie Kloss e Doutzen Kroes così come le italianissime Bianca Balti ed Eva Riccobono. Da grandi non vogliono fare le influencer? Può darsi. Preferiscono rimanere grandi volti della moda difficili da dimenticare? Sicuramente.

“The tale of Thomas Burberry”, il film che omaggia i 160 anni dell’iconico trench

“The tale of Thomas Burberry”, il film che omaggia i 160 anni dell'iconico trenchCi sono quei capi destinati a non passare mai fuori moda. Sempre attinenti ai tempi e alle tendenze del momento, perfetti anche a distanza di anni. Ne sa qualcosa l’iconico trench coat di Burberry, che di anni dietro alle spalle ne ha un bel po’. Esattamente 160 anni. Un risultato unico ed è per questo che la maison britannica non poteva che celebrarne l’ anniversario omaggiandolo con un film di tre minuti, o poco più, e coinvolgendo tante star. Un film che è stato poi presentato a Londra nel flag store di Regent Street, in occasione dell’inaugurazione della nuova campagna natalizia 2016.
Il cortometraggio, che s’intitola “The tale of Thomas Burberry”, non è altro che un racconto romanzato che ripercorre la storia dell’uomo che nel XIX secolo fondò la nota casa di moda e creò il primo modello di trench. Una creazione da subito vincente e destinata al successo vista la sua praticità data dalla natura stessa del materiale con cui è stato fabbricato, completamente impermeabile e che rappresenta, ancora oggi, la chiave del suo successo, se non la sua essenza.
La regia è di Asif Kapadia, un nome già conosciuto nel mondo del cinema per aver vinto il premio Oscar con il documentario “Amy”. Il cast è invece formato dagli attori Domhnall Gleeson,nel ruolo protagonista e reduce dall’ultimo “Star Wars”; Sienna Miller, che interpreta i panni del primo grande amore di Thomas Burberry; Dominic West, alias sir Ernest Shackleton, l’ avventuroso esploratore che indossò un gabardine firmato Burberry in tre pionieristiche spedizioni antartiche; ed infine Lily James, nelle vesti di una nota aviatrice.

“The tale of Thomas Burberry”, il film che omaggia i 160 anni dell'iconico trench
Un film che omaggia l’iconico trench, la cui genesi viene raccontata tappa per tappa, ma allo stesso tempo celebra la vita e i successi di Thomas Burberry, un uomo che fu prima di tutto un inventore ma anche un geniale innovatore dello stile.
L’idea di festeggiare il trench di Burberry e i suoi 160 anni nasce dall’attuale direttore creativo, Christopher Bailey, che ne riconosciuto la grande importanza storica. Il trench ha, in effetti, caratterizzato diversi momenti importanti della storia, a partire dalle divise delle esplorazioni dell’800 o a quelle dei soldati della Seconda Guerra Mondiale, fino a diventare poi il tratto distintivo dell’affascinante e carismatico Humprey Bogart, nel mondo del cinema. Oggi è, più che mai presente nelle passerelle, sia nella sua versione classica che nei modelli più sportivi.

Un film omaggio che seppur breve e di soli tre minuti circa, ha comunque lanciato «uno sguardo su una vita piena e straordinaria, attraverso i tumultuosi alti e bassi del XX secolo» come spiega Bailey.

“The tale of Thomas Burberry”, il film che omaggia i 160 anni dell'iconico trench

È destino quindi che capi come il trench coat di Burberry, vivano ancora a lungo, magari per altri 160 anni o forse anche di più. Un chiaro esempio di come la moda non mai è fine a se stessa ma fa parte della storia, facendo essa stessa la storia.

Per vedere il film  “The tale of Thomas Burberry”, cliccare qui:

https://www.youtube.com/watch?v=6D5IZtDCS5c

#enjoythefrontrow: lo shopping istantaneo a “La Rinascente”

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Quante volte si è sognato di poter partecipare ad una sfilata? Tante, forse troppe, senza mai averne avuto la possibilità: in fin dei conti soltanto gli addetti ai lavori hanno questo privilegio. La Rinascente di Milano con #enjoythefrontrow, progetto ideato dalla giornalista Paola Bottelli e fortemente voluto da Alberto Baldan, CEO del celebre department store, ha proposto cinque giornate (dall’11 al 15 ottobre) di sfilate ed eventi a porte aperte al pubblico. Un evento unico, per includere e non escludere.

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C’erano la passerella, le luci dei riflettori, le sedute, gli appassionati e i curiosi nello spazio Annex de La Rinascente. Una vera e propria location allestita a dovere per emulare quelle della settimana della moda. In uno scambio di ruoli che vede il cliente finale buyer per se stesso, il department store, segue il trend del “see now, buy now”. Le collezioni presentate, infatti, saranno esposte da Annex fino al 25 ottobre.

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Come una fashion week che si rispetti, non è mancato lo spazio ai nuovi talenti. Sono stati proprio i talenti di Fashion Lab, l’incubatore di UniCredit, Banca della Moda e Camera Nazionale della Moda Italiana, ad inaugurare la manifestazione, mostrando al pubblico le loro creazioni Autunno/Inverno 2016-17 in una sfilata collettiva. 

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Colori, stampe e grafismi di L72, Leitmotiv e Marcobologna hanno dato il via ad #enjoythefrontrow. Calcaterra ci ha stupito con i suoi volumi inediti e sartoriali e San Andrès Milano ci ha portato indietro nel tempo con il suo stile sapientemente retrò. Non è mancato il guardaroba genderless di Cristiano Burani e del brand Edithmarcel. Uno spazio ad hoc è stato riservato agli accessori: dalla tradizione e modernità di L’F Shoes, passando per i gioielli di Voodoo Jewels fino ad arrivare alle calzature dalle tinte inedite di Solovière.

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Al loro fianco si sono susseguiti i veterani dell’ambiente. N°21, Francesco Scognamiglio, Antonio Marras e Diesel sono solo alcuni tra i brand più famosi che hanno presentato le loro collezioni. Ad alternarsi, in queste giornate, anche le presentazioni-evento di Giuseppe Zanotti Design e di Kartell che ha lanciato la nuova collezione in collaborazione con Paula Cademartori.

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Un progetto ben riuscito, dedicato ad un target più ampio e diverso da quello del fashion system, che ha portato un totale di 3 mila persone tra clienti e visitatori. Un’edizione punto zero di #enjoythefrontrow che non si ferma solo sul reparto moda ma che punta al lifestyle, con già in calendario l’evento Love to ride, dall’8 al 13 novembre, in contemporanea con l’Eicma, l’Esposizione internazionale ciclo e motociclo.

Rihanna si ispira a Marie Antoinette. Look da “perdere la testa”

Atmosfere settecentesche per la seconda collezione di Rihanna per Puma che ha sfilato, per la prima volta, durante la Fashion Week di Parigi il 28 settembre all’Hôtel Salomon de Rothschild. IMG_4226

Rihanna, cantante delle Barbados, si è ispirata agli abiti che la regina di Francia Maria Antonietta avrebbe indossato in un universo parallelo. Maria Antonietta non è un personaggio sconosciuto alla cantante che di recente ha indossato i suoi vestiti per la copertina di CR Fashion Book immortalata dal famoso fotografo Terry Richardson.

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La collezione segue il fil rouge della prima sfilata tenutasi a New York ovvero abiti dai volumi larghi, maglie e tute molto aderenti caratterizzati però questa volta da pizzi, merletti, fiocchi giganti e colori pastello: un tocco più femminile che va dal rosa cipria al verde scuro, lilla e panna.

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Le modelle indossavano completi sporty contrastati da tacchi vertiginosi e ventagli con il logo “Puma”, Rihanna grazie alla sua collaborazione ha fatto raggiungere al brand 2 miliardi di dollari grazie alle sue creazioni.

La cantante gioca molto con il contrasto dei volumi, lo street style inconfondibile e una femminilità seducente: in poche parole queste creazioni esprimono l’essenza e lo stile di  Rihanna.

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La sfilata era decisamente diversa dalle altre perché era visibile in streaming solo su Tidal, il portale musicale a pagamento creato da Jay Z che ospita molti artisti musicale tra cui la cantante delle Barbados.

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Crediti Foto: Vogue Runaway Italia, Official Instagram Rihanna 

 

 

Quando la giornalista si infiamma, i blogger rispondono sul web

Terminate le settimane della moda si spengono i riflettori, il sipario cala e si tirano le somme di quello che è stato. Lontano dalle folle e dai front row più celebri, si riflette sui lati positivi e su quelli negativi, su quello che funziona e su ciò che si potrebbe migliorare. E come ogni anno si torna a parlare dei blogger. La scintilla, che ha dato il via al dibattito più accesso del momento, non è la solita e solitaria voce fuori dal coro ma niente di meno che la redazione online di Vogue US, la bibbia del fashion system versione 2.0, diretta dalla impassibile Anna Wintour. Alcune delle più illustri giornaliste, in un articolo pubblicato su vogue.com, si sono scagliate contro blogger e influencer, denunciando l’invasione e non tanto opportuna presenza di quest’ultime. Nessuna novità rispetto gli anni precedenti. Unica piccola differenza in questa lotta tra giornalismo tradizionale e new media? Il modo, non tanto soft, con il quale è stato sferrato l’attacco.

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“Un appunto ai blogger che si cambiano dalla testa ai piedi, pagati per indossare un outfit diverso ogni ora: per favore, smettetela. Trovatevi un altro lavoro. State decretando la morte dello stile” è la prima a scrivere Sally Singer, Creative Digital Director di Vogue. Sembrerebbe voler difendere le influencer Sarah Mower, Chief Critic di Vogue.com: “È vero, le blogger sono irritanti, ma pensate alle aggressioni dei fotografi che le aspettano per la strada…È orribile e soprattutto patetico per queste ragazze: quante volte le disperate si fanno su e giù fuori dalle sfilate, nel traffico, rischiando incidenti nella speranza di essere snappate?” un intervento alquanto ambiguo, no?”. Continua Nicole Phelps, Direttore di Vogue Runway, citando le parole di Tomas Maier, direttore creativo di Bottega Veneta, e ricavando la sua opinione sulla questione: “Non è solo triste per le donne che si pavoneggiano davanti all’obiettivo, indossando abiti in prestito. È angosciante vedere anche tanti brand collaborare e stare al gioco”. Chiude Alessandra Codinha, Fashion News Editor di Vogue.com, usando l’artiglieria pesante per sferrare l’attacco più duro: “È divertente il fatto che continuiamo a chiamarli blogger anche se pochissimi di loro ormai lo sono, troppo impegnati a posare in modo spesso ridicolo e a farsi fotografare solo per aggiornare con gli scatti i propri profili social. È imbarazzante, se si pensa a tutto quello che succede nel mondo». Conclude: «Amare la moda è straordinario, ma cercare stile tra chi viene pagato per essere in prima fila è come andare in uno strip club per innamorarsi”. Anche Neiman Marcus, colosso della distribuzione di lusso, si schiera fianco a fianco con la redazione di Vogue, sottolineando come il blogging sia causa di perdite di fatturato.

Il contrattacco del mondo blogger non ha tardato ad arrivare. Bryanboy, socialite e businessman filippino, e Susanna Lau alias Susie Bubble, fashion blogger inglese, hanno scelto Twitter come campo di battaglia, scatenando un interminabile dibattito sui social. La stessa Susie Bubble ricorda come i magazine siano da sempre legati economicamente ai propri inserzionisti. L’essere pagato per indossare outfit è paragonabile ai crediti sulle riviste. Ora dopo ora, il web si è riempito di commenti in difesa delle starlette digitali, accusando Vogue di abusare della propria potenza ed elogiando il buon lavoro compiuto da blogger e influencer che, sembrerebbe, sarebbero in grado di far aumentare le vendite. Un potere che la pubblicità tradizionale pare aver perso. Un’affermazione con un proprio peso specifico quando si parla di vendite e fatturato. I protagonisti della rete non fanno miracoli e l’aumento di visibilità, commenti, like e cuoricini non porta alla conseguente azione di acquisto. Pur vero è che un post di Bryanboy o della Bubble ha molta più visibilità rispetto all’ultima copertina dell’ultimo numero scattato dal fotografo più famoso di una qualsiasi rivista di moda.

Nell’era del consumismo sfrenato, del see now buy immediately, dell’unisex alienante e del sogno ricorrente, i blogger sono la via più semplice del successo immediato, senza fatica e senza esperienza. Quel privilegio, proprio delle redazioni giornalistiche, di dispensare consigli di moda, di porsi su un piedistallo e benedire i propri fedeli si è perso. Influencer dopo influencer che predicano un sogno, mercificando la Moda, tra la folla in strada c’è e ci sarà sempre qualcuno che ha bisogno di tornare da quelle persone che la moda la sanno raccontare, con intelligenza, e non solo fotografare.

Ricette per la vita in società: il perfetto manuale di comportamento contemporaneo

ricette per la vita in societàSe “l’abito non fa il monaco” è pur vero che sbagliare outfit durante un’occasione importante può rappresentare un cattivo biglietto da visita o un passo verso il declino.

Per questo motivo ci viene in soccorso Giulia Rossi, giornalista bolognese ed esperta nel settore moda, che ha appena pubblicato Ricette per la vita in società, un vero e proprio manuale di comportamento contemporaneo.

Edito da Pendragon, il volume raccoglie dieci situazioni topiche e tutto ciò che sarebbe bene fare e indossare in questi casi: dal primo appuntamento alla cena con il capo; dal caffè all’incontro con le amiche; dagli amori clandestini alla cena d’affari. Ad esempio, meglio un abito leggero e in seta per una serata con lui così come la camicia bianca e una gonna a matita rappresentano la scelta più adatta per una cena di lavoro. Il vademecum però non si concentra soltanto sull’outfit: l’autrice del libro infatti ha interpellato alcuni dei professionisti più noti per rendere Ricette per la vita in società un perfetto manuale di lifestyle dei giorni nostri. A offrire consigli di bellezza ci pensa Luciana Caramia, beauty editor di Elle.it; per i settori cocktails e food ci sono Alessandro Cattani e Mario Ferrari. Cristiana Melis si occupa di mise en place e Sonia Minute del coffee time. Tamara Nocco dà indicazioni in fatto di look  mentre Melissa Proietti ha arricchito il volume con le citazioni più adatte.

Giulia Rossi ha dichiarato di non aver voluto realizzare un manuale di bon ton, quanto una raccolta di consigli tra amiche: quelle semplici quanto preziose perle che non possono fare altro che rendere la vita in società più semplice e divertente.

‘Meggins’, quando la calzamaglia è ‘fashion’

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Un inquietante neologismo compare adesso sulle riviste di moda per descrivere l’incesto lessicale tra uomini e calzamaglia: ‘meggins’Un nome aberrante –coniato da qualche mente che di marketing ne capisce eccome– autocertifica la liceità di queste brache effemminate, con l’intento subdolo di spacciare per ‘moda’ l’incontro mitologico tra l’esemplare umano di genere maschile e uno dei capi d’abbigliamento che risalta i fianchi femminili, battezzando la confusione dei ruoli con la crasi bastarda di ‘men’ e ‘leggins’.

La toilette del sedicente uomo modaiolo altro non è che una calza, aderente e –per il momento, poi chissà!- coprente, che strizza le forme adamitiche e lascia che l’immaginazione accusi il contraccolpo dell’evidenza anatomica. Indossati per la prima volta dal conduttore televisivo americano Conan O’Brien, i meggins sono diventati l’ornamento prediletto del cosiddetto sesso forte che si appella alle follie abbigliative di ‘divi’ del calibro di Justin Bieber e Russel Brand (marito di Kate Perry) per giustificare l’eccentrica concia.

Prosegue la femminilizzazione del maschio, dunque. Dopo borse e gonne, cappelli fru fru e orecchini vezzosi, l’uomo sfodera la bizzarria di un’immagine cinta in guaine contenitive come il piatto freddo di una diabolica vendetta servita a lei, rea di aver indossato i pantaloni per non toglierli più (come se non fosse già abbastanza la legittimazione delle sopracciglia perfette ad ali di gabbiano, del dorso glabro come lo stucco di una parete, del viso liscio come un puttino di porcellana).

E il geniale mondo della moda accorre in suo aiuto, lo guida nell’intento, consiglia il giusto outfif et voilà! Tutto diventa, improvvisamente, ingegnosamente, ‘fashion’. Basta che un brand avalli l’iniziativa e metta il suo logo sull’etichetta interna del feticcio o che qualche guru dello ‘stile’ mandi in passerella prototipi di maschi muscolosi fasciati dall’aderenza di un tessuto per decretare, ufficialmente, la portabilità di una mise, per quanto potenzialmente ridicola se indossata fuori dal contesto di una sfilata.

Ma “Ipse dixit” è il messaggio lanciato da chi quel capo lo indossa glorioso, in discoteca o per strada, con buona pace degli attoniti astanti poco avvezzi ad un’invasione improvvisa di Robin Hood in calzamaglia nella progressista Sherwood metropolitana.

Concentrazione e sguardo basso: è la ‘Ruzzle-mania’

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Tutti ne parlano, tutti ci giocano, tutti si sfidano: Ruzzle è il delirio ricreativo del momento, un’applicazione per smartphone ideata dall’azienda svedese Mag Interactive e scaricata da due milioni di utenti alla settimana.

Il passatempo interattivo è la versione postmoderna dell’ormai preistorico ‘Paroliere’, un gioco in voga negli anni ‘80 che consisteva nel comporre parole corrette con le lettere scritte sui dadi di una cassetta e prometteva la ginnastica mentale alle giovani menti reduci dal Grillo Parlante, che, invece, bloccava l’arricchimento verbale a termini come ‘acacia’ o ‘tonfo’. Ma erano tempi in cui andarsene in giro con una scatoletta sotto al braccio per ammazzare il tempo era fuori da ogni contesto spazio-temporale, il gioco durava il tempo di una clessidra ed era necessario essere fisicamente presenti attorno ad un tavolo, con tanto di ‘penna e calamaio’ per segnare il punteggio ottenuto.

Adesso, però, ora che la tecnologia eleva tutti ad amici virtuali dovunque essi siano, dappertutto può scovarsi un avversario, sia esso vicino di banco o lontano dei chilometri, e la destrezza linguistica può essere dimostrata ovunque, in fila alle poste o nell’attesa dell’autobus. L’obiettivo è scovare il maggior numero di parole nelle 16 lettere di una scacchiera e totalizzare il punteggio più alto in due minuti di tempo, per vincere in tre round ed esibire sulla bacheca di Facebook il trofeo di quel riconoscimento, elargito da una specie di Accademia della Crusca confinata nello spazio di uno schermo touchscreen.

Una sciocchezza, insomma, una leggera alternativa alla vetusta Settimana Enigmistica e al Sudoku che tempo fa affaticava le meningi degli adepti, con l’aggiunta vantaggiosa di essere una sfida facile e veloce: “Due minuti”, pensi, “solo due minuti”.

Ma poi, inconsapevole, quel breve lasso di tempo alimenta l’idea che aggiungere due minuti ad altri due non è nulla, la rapidità istiga la reiterazione per diventare mania e l’ipnotico stordimento replica il ciclo cadenzato di “tocca a te­–primo round–rivincita”.

Federico Tonioni, direttore del Centro per le psicopatologie da web del Pollicino Gemelli di Roma, mette in guardia: “Ad aprire le porte all’atteggiamento compulsivo è il meccanismo dissociativo attivato dal videogame. Il passaggio da semplice gioco a dannosa dipendenza è facilitato dalla possibilità di giocare più partite nello stesso momento”. “L’uso moderato è positivo”, continua l’esperto di Internet-dipendenza, poiché “quando giochi, stacchi totalmente dalla realtà, sei totalmente assorto. Si tratta di una fase naturale, ma breve, che proprio come la pausa caffè è utile al pensiero cognitivo per poi funzionare meglio”. 

Ma l’inghippo sta proprio là, in quella misura della “moderazione”, perché Ruzzle è tazzina senza fondo, è caffeina elettronica di cui si comprende l’abuso quando di notte la testa tocca il cuscino e quelle sedici letterine diventano graffiti colorati sul muro grigio del cervello che,  intorpidito ma pur vigile, invano cerca il sonno tra 426 possibili ‘COMBINAZIONI’ (AZIONI-COMBINA-CAMBI-CAMBIO-AMBI…… ).

Ruzzle, la mania ludica del momento, celebra il de profundis alle goliardiche sfide da osteria, congeda le carte napoletane e licenzia picche e quadri, per lobotomizzare, una volta per tutte, le capacità lessicali del popolo ‘smartphonizzato’.

Addio a scopa, briscola e tressette, dunque, perché oggi le sfide si non si affrontano guardando in faccia l’avversario di fronte, ma con lo sguardo basso fisso su una foto-profilo dalla doppia dimensione.

L’ignoranza è sulla punta della lingua…italiana

Indugia la lingua italiana, avvilita e depressa.
Chiusa nei confini di uno spazio astratto chiamato “patria”, medita sul quel soffio di vita che ancora le resta.
Questa “vecchia Signora”, abbandonata da “figli” in affido a “tata Europa”, non esce più: l’aria inquinata dai gas di termini stranieri è deleteria per il suo apparato respiratorio e le frequenti piogge di castronerie grammaticali indeboliscono il corpo, ormai tanto gracile.
Tace, allora. Forse, ormai, non sente nemmeno più.
È passato il tempo in cui, fasciata in un abito di frasari eleganti, si mostrava con un copricapo di costrutti chiari e coerenti, fonte di plauso per i dialetti del volgo, che ammiravano quel suo filo di perle di saggezza intorno al collo. Una robusta stola di analisi logica, poi, velava sempre le sue spalle, dritte come spade nella roccia di regole inflessibili, e le altre lingue adoravano la musicalità dei suoi suoni e ne invidiavano l’estro, tanto era spontaneo e intrigante.
Ma è arrivato il momento in cui “l’Europa chiede” e la “sventurata risponde” e, siccome da esportare c’è ben poco, s’introducono termini esotici, che sanno tanto di “progresso”.

Adesso, quindi, non va più bene niente, oggi «è tutto ok». I fine settimana sono «week end tra un happy hour e una disco», «il relax del break è un’oretta di fitness», mentre una persona autorevole è “very important”. «Si paga cash, mica in contanti», e «se non cambi look te lo scordi di essere glam, perché sei out, my darling». Il mestiere più antico del mondo si esercita da “escort” e se resti in “mutande”, chiamale “slip”, così sei “sexy” comunque.
Il francese, poi… vuoi mettere lo “charme” dei “cugini d’Oltralpe”?
E allora «via quel trucco e giù col maquillage», «hai visto la réclame? Quest’anno va il tailleur sotto al paltò». «La rosetta è finita, se vuole ho la baguette», «il cornetto è vintage, mangia un bel croissant». «Datti al découpage e trova un escamotage alla routine del tuo ménage». «Che gaffe, senza il bon ton!», «Leggi la brochure e, voilà, diventi parte dell’elite». «Non sei graziosa, sei un bijou», «macché parrucchiere, il mio è un coiffeur», «non è una spogliarellista, ma fa gare di burlesque».

Gli italiani si adeguano, dunque, e se da un lato inseriscono nel linguaggio quotidiano una valanga di termini stranieri, dall’altro incrementano l’utilizzo di alcune espressioni “caserecce”, adoperate nel linguaggio comune come espressioni di un moderno carosello verbale.
Invece di” è soppiantato da“piuttosto che”, non si dice più “ovviamente”, ma “infatti sì” e il “no, grazie” è un generalizzato “ma anche no”. L’inasprimento di una legge è un “giro di vite”, la più banale chiacchierata è un “dialogo costruttivo” e una “larga intesa” si raggiunge quando l’interlocutore non accetta compromessi.
All’occorrenza, però, quando è fondamentale mostrarsi acculturati per impressionare una platea, si stendono lenzuola di sproloqui lessicali, si ascoltano interminabili “salmoni” e si mangiano “arringhe” marinate. La predica viene da un “palpito”, la disattenzione è solo un “lapis” involontario e si saluta tutti “indiscretamente”.
“Dulcis in fondo”, poi, si svecchia il vetusto latino proclamando che no, “in claris non fit interpretation“.

Il nostro “antiquato” italiano tenta di sopravvivere al pubblico ludibrio, ma l’esiguo gruppo di “medici con le frontiere” che veglia su di lui, da solo, non riesce a tenerlo in vita.
Basterebbe un’iniezione di vocaboli semplici al giorno e una flebo di congiuntivi al posto giusto da parte di tutti per lasciarlo esistere ancora, perché una “lingua sciolta” sarà anche l’accesso al mondo globalizzato, ma ignorare l’italiano significa mordere, tristemente, la lingua della propria storia.

 

 

Un “posto fisso” per i laureati italiani: al 226esimo della classifica del New York Times

L’illustre testata americana New York Times, in collaborazione con l’agenzia di stampa britannica Reuters, ha stilato la graduatoria annuale delle università più prestigiose del mondo. Il risultato non è dei più esaltanti per gli atenei italiani, il primo dei quali, quello di Bologna, si colloca appena al 226esimo posto.
Considerata la scarsezza qualitativa delle strutture, la mediocrità dei professori e dei loro insegnamenti e la mancanza di esperienza fornita agli studenti durante gli studi, la cultura dei “dott.” nazionali sarebbe aria fritta nel guazzabuglio vuoto del pressapochismo tricolore.
E, siccome pare che oggi un giudizio a stelle e strisce impressioni almeno quanto le profezie catastrofiche dei Maya, bisogna crederci perdutamente, per non rischiare un aumento dello spread anche per l’insolente miscredenza verso uno dei tanti responsi made in USA.

Prendiamo atto, dunque, che del percorso formativo affrontato dopo il liceo non resti altro che il quadretto di pergamena appeso alla parete dello studio di casa, come una sorta di premio di consolazione per una gara di vana gloria, dove l’importante è stato partecipare, dato che da vincere non c’era un bel niente.
Non importa cosa si sia imparato nel frattempo, di pari passo con le dottrine di manuali “scadenti” e le lectio magistralis di docenti nemmeno tanto illustri, perché tra i parametri di riferimento non si contemplano i fattori, per così dire, “umani” acquisiti grazie all’esperienza totalizzante dell’università .
Ciò che conta è l’involucro che incarta, non il contenuto imballato, che resta marchiato da un codice a barre e decifrato con infrarossi che riconoscono numeri di matricola, non persone.

Quello che s’impara in quegli anni, dalla capacità di riuscire ad affrontare le prime prove veramente difficili alla gestione autonoma del proprio tempo, sono elementi che cambiano abitudini e forgiano caratteri, che, nel bene e nel male, trasformano gli adolescenti di oggi negli adulti di domani.
Chi quella laurea “fuffa” l’ha conseguita con impegno sa cosa significhino gli anni pieni di caffeina, le ore passate nei gironi infernali di anime compresse chiamate aule, le cene in scatola e i pranzi rimediati alla buona, i boschi di matite temperate e le lunghe attese sfociate nelle maledizioni per l’esame sfortunato e negli «e vai!» per quello superato.
Sono ricordi che si conservano dentro, fino a “quel giorno” drogato di adrenalina, col primo libro della vita stretto tra le braccia, con l’orgoglio di mamma e papà in formato lacrima, con la toga nera e il “tocco” in testa, con le mani sudate e lo spumante stappato. Memorie nitide, riflesse sulla resa mai contemplata, per “questione di principio”, perché “ce la devo fare”, per quella forza di volontà tutta italiana, che valla a spiegare agli americani…

Poi, un giorno, arriva “la statistica” e, con la freddezza cinica di una calcolatrice che degrada la vita vissuta ad un indefinito conteggio alfanumerico, stabilisce che lo studente italiano, privo dei “money” necessari a occupare la sedia del California Insitute of Tecnology, di Harvard o della Stanford University, rimane culturalmente scarso, destinato ad arrancare tra le menti eccelse del pianeta.

È vero, la laurea in Italia è quella “cosa” che se non ce l’hai sei un deficiente e se ce l’hai non vali comunque. Ma anche se “questo passa il convento”, tra chi spicca il volo oltreoceano e chi raggiunge le università dell’Albania per sentirsi migliore, c’è chi in Italia resta e sceglie di studiare con passione, senza per questo aderire all’ordine monastico dei “senza arte né parte” al quale le classifiche livellanti lo consegnano.

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