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Luca Morricone e Francesco Lioce @ Lounge #4

Dal 2 al 4 maggio,  Ticto e Teatri e Culture, due associazioni culturali della Capitale, alla Domus Talenti, hanno messo in scena l’adattamento teatrale di Ocean Terminal (Castelvecchi, 2009), il risultato del labor limae sul mucchio di pagine incazzate, appassionate e deliranti di Piergiorgio Welby.

La Domus è stata completamente trasformata per farla somigliare alla vita di Welby: una stanza stretta senza via d’uscita e tu che te ne stai inchiodato al letto come un Cristo in croce a ripensare ai fatti tuoi: un tavolo rettangolare al centro della scena, sopra il tavolo una tovaglia bianca. Sopra la tovaglia Emanuele Vezzoli che interpreta Welby. Alle sue spalle un telo per le proiezioni. Stop. Luci e faretti dall’alto. Stop. Nient’altro. La principale differenza tra questa scena e la vita normale di Welby è che dalla scena puoi uscire, dalla vita no.

Arrivo in leggero ritardo. Lo spettacolo è cominciato da poco. Non fa niente, merita lo stesso.
Il bello di partecipare alle prime teatrali è che a fine serata c’è sempre qualcuno che ti offre da bere. E magari incontri pure gli addetti ai lavori. E quando gli addetti ai lavori sono due giovani che sembrano appena usciti dal liceo (15 anni dopo, magari – ndr)  ti ritrovi a bere e parlare. Più bere che parlare.

Stavolta ad offrirmi da bere sono stati Luca Morricone e Francesco Lioce, gli adattatori del testo. Quelli, in pratica, che hanno trasformato il romanzo in monologo teatrale. Mica pizza e fichi.

 Come nasce Ocean Terminal? Il romanzo, non il monologo!

L.M. – In pochi, anche tra i familiari, sapevano che Piergiorgio stava scrivendo un testo autobiografico; e anche quelli che ne sapevano qualcosa ne avevano letto solo una minima parte. È stata una scrittura nascosta agli altri quasi fino alla fine. Poco prima della sua morte pubblicammo sulla rivista línfera due brani tratti dal romanzo dando la notizia della sua esistenza: uno di questi era il ricordo straziante della morte del padre e forse proprio con la morte del padre è nato un artista.

F.L. È vero. Mi cominciò a parlare dell’idea del romanzo subito dopo la morte del padre e mi lesse il brano che pubblicammo proprio su «línfera» qualche anno più tardi. Il romanzo è rimasto incompiuto, avrebbe dovuto ripercorrere tutta la sua vita, ma Piergiorgio non ce l’ha fatta. In ogni caso penso che abbia una sua compattezza anche così. Pure essendo senza una conclusione.

Piergiorgio ha lasciato a me il compito di pubblicarlo dopo la sua morte. Su questo punto fu subito chiaro, forse proprio per tutelare le persone a lui più care optò per una pubblicazione postuma.

L.M. – Sì, è poi credo che da tutti i punti di vista il romanzo non potesse uscire prima. La conclusione che mancava al libro doveva essere scritta con la vita, e solo attraverso la vita l’ultimo frammento del romanzo ha acquisito quelle valenze che lo fanno debordare dalla pagina: insomma, Welby muore praticamente a Natale del 2006 e il libro si conclude con un’immagine dell’infanzia, quando il piccolo Piergiorgio guariva miracolosamente da una brutta polmonite, proprio a Natale, con i parenti, il padre e la madre che lo vegliavano stando intorno al letto… e c’era pure il medico di famiglia! Quando lo ha scritto Piergiorgio non poteva immaginare… eppure… Certe volte mi chiedo come mai non ho conosciuto Welby. Mi sembra troppo strano, perché alla fine anch’io l’ho incontrato in qualche modo attraverso quello che ha scritto. Mi viene in mente la prima frase del suo libro: «Com’è difficile tenere assieme i frammenti di un io disgregato nel riflesso schizzoide della propria natura umana». È qualcosa che possiamo capire tutti; non dobbiamo essere per forza malati di distrofia muscolare per metterci dalla sua parte. Credo che a un certo punto abbia sentito anche lui l’esigenza di rimettere insieme i pezzi e ne è nata un’opera straordinaria, lo spaccato di un’epoca, di un intero sistema politico, etico e culturale che è di fronte alle domande cruciali.

 Prendi un libro e lo trasformi in un monologo. Non è una di quella cose che ti vengono in mente così, di prima mattina, appena ti svegli. 

L.M. – L’idea è venuta a Giorgio Taffon (il direttore artistico, ndr)

F.L – È stato Giorgio a capire che il romanzo nascondeva una struttura teatrale

L.M. – Sì, ma soprattutto il linguaggio. In Ocean Terminal c’era già tutto per essere messo in scena.

 Quindi, si decide di fare un monologo. Si prende il testo, lo si legge, e poi? Voglio dire, ci sarà pure, prima o poi, una parte emotiva, o no?

F.L. – Per quanto mi riguarda, è stato molto stimolante poter condividere la fase creativa con un amico, Luca, che già aveva contribuito in modo determinante a trovare le soluzioni filologiche per la ricomposizione del romanzo. E comunque la scrittura di Welby è talmente labirintica che si rivela sempre come una miniera inesauribile per nuove sfide.

 Ogni autore impara qualcosa dalla propria creazione. A voi cosa ha lasciato Ocean Terminal?

L.M. – Ha cambiato il mio modo di vedere la letteratura; l’ha calata giù dal piedistallo fino alla realtà e me ne ha mostrato la vera altezza, cioè la capacità di incidere sulle cose, di vivere concretamente in mezzo alle persone. Quando poi vedi materializzarsi in teatro un’immagine che senti così visceralmente… Emanuele Vezzoli in questo è stato bravissimo, e lo stesso si deve dire di Gabriella Borni che ha curato con lui i movimenti scenici. Lo spettacolo è stato sorprendente. Sì, è vero, sono rimasto emozionato e lo sono per tanti motivi. È stata un’emozione contagiosa che ha preso il pubblico.
E la soddisfazione è tanta… Vedere incarnato Piergiorgio sulla scena, con tutta la verità della carne, appunto, di un attore straordinario, che ha fatto della fisicità la chiave di interpretazione del testo e dell’esperienza welbiana… Non poteva essere diversamente. Credo moltissimo nella dimensione eccezionale di Welby come scrittore.

 Come si affronta un tema delicato come la storia di Piergiorgio Welby?

L.M. – Non è stata una scelta.

F.L. – In qualche modo è stata la vita ad affidarci la tutela del patrimonio artistico e umano di una figura come quella di Welby.

L.M. – Sicuramente abbiamo sentito il peso di una responsabilità molto forte, anche nei confronti della famiglia che ci è sempre stata vicina, ma che abbiamo sempre cercato di rispettare al massimo ascoltandola ogni qual volta c’era bisogno di prendere delle decisioni. Diciamo però che c’è una responsabilità che va oltre perfino la vicenda familiare e che riguarda la dimensione storica…

F.L. – Welby va al di là della propria vicenda umana e diventa qualcosa di pubblico, di collettivo, che riguarda ognuno di noi; penso anzitutto all’invasività della tecnologia.

 Okay! Critiche negative?

F.L – Diciamo la verità: finora non abbiamo sentito nessuno contrario di fronte alle valenze creative dell’opera di Welby. E questo ne dimostra una volta di più il valore.

 Prossime date?

L.M. – Il percorso è all’inizio, ma dopo il debutto di Roma, con gli ottimi riscontri di critica e il forte coinvolgimento del pubblico, stiamo già ricevendo nuove proposte e stiamo già lavorando per organizzare altre date in giro per l’Italia.

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