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Attenzione! Vestirsi nuoce gravemente alla salute. (Indossa abiti solo responsabilmente)

SOUNDTRACK: Beethoven – Symphony No.9

I jeans invecchiati uccidono chi li produce.  Le magliette di cotone contribuiscono al prosciugamento dei corsi d’acqua. Le pellicce concorrono all’estinzione animale. E noi che vogliamo “semplicemente” vestirci?
I vestiti fanno male! Pardon, alcuni vestiti fanno male. Uccidono chi li indossa e chi li produce, o almeno così sostiene Rita Dalla Rosa nel suo libro “I vestiti che fanno male”.
Nel settore tessile si impiega un sacco di chimica. –  afferma la giornalista – E non importa se un capo è in cotone: la chimica si usa sempre, anche sulle fibre naturali.

Al grido di “abbasso la chimica”, che poi, in certi settori è tutto (pensiamo alla chimica che ci scatta dentro nel vedere l’ennesimo, irrinunciabile paio di scarpe), cerchiamo di capirci qualcosa tra “moda green” , ecosostenibilità, ed ecologia.

                  

Tutto fa male. Fa male usare troppo l’auto, fa male fumare, fa male mangiare troppo, fa male respirare tutti i gas nocivi che circolano liberi e felici nell’aria..e da oggi all’infinita lista aggiungiamo che fa male vestirsi.
Ma è possibile vestirsi “responsabilmente” senza  dover fare la fine della favola “I vestiti dell’imperatore” e ritrovarsi nudi per le vie delle città, convinti di indossare i migliori vestiti al mondo?
Pare di si. La conferma arriverà il prossimo 3 maggio, quando molte personalità illustri andranno a discutere al Copenhagen Fashion Summit, incontro nato con lo scopo di  realizzare un codice globale per una moda più eco friendly.
Insomma, vestiremo tutti “bio”, e intanto? Quali sono le nostre alternative, per contribuire all’ambizioso progetto “Save the planet”?
Il caro Giorgio Armani ci aveva visto lungo. Negli anni 90 fu il primo ad introdurre una vera e propria linea ecologica, con jeans realizzati utilizzando capi riciclati e con indumenti in canapa coltivata senza pesticidi e diserbanti, presentando inoltre, la Armani Jeans Denim Culture con capi realizzati in fibra di bambù.

Ma vestire responsabilmente non riguarda solo l’utilizzo di fibre naturali, come ricorda  Rita Dalla Rosa, infatti anche se  la materia prima proviene da coltivazioni agricole ecologiche, la strada dal campo al cliente è molto più lunga. Sono i processi di produzione che contribuiscono al danneggiamento ambientale dell’acqua, dell’aria e del suolo, senza trascurare i problemi connessi ai rifiuti, il rumore e l’ecosistema.
Le grandi catene ci semplificano la vita, prima tra tutti H&M con la “Counscious Collection”, una collezione consapevole, almeno per noi che l’acquistiamo, ma non è l’unica.

                
Aumentano sempre più, infatti, i negozi di moda “green”, dove il verde, non è un colore, ma una scelta ben consapevole.
Ma non si tratta solo di vestire con piume di polli, banane, caffè e pelle di salmone (le ultime scoperte in campo di fibre bio), bisogna crederci, e per chi fosse ancora scettico, l’aiuto arriva dalle star. Livia Giuggioli, moglie dell’attore Colin Firth, produttrice cinematografica italiana, è la prima imprenditrice ad avere investito sulla moda eco-sostenibile a Londra. È suo infatti il primo store ecologico ed etico della capitale, così come il progetto Green Carpet Challenge, che va a coinvolgere i grandi nomi della moda.“Ho proposto la sfida a alcuni stilisti da Tom Ford a Valentino ad Armani a Rover Vivier e altri. – afferma – Per ognuno dei grandi appuntamenti da tappeto rosso dell’anno, realizzeranno almeno un abito per una celebrity concepito e prodotto secondo le linee guida di Eco-Age. Ma l’obiettivo è molto più ambizioso: ottenere dalla Comunità Europea le leggi sulla provenienza dei tessuti.”


E ci siamo vicini. Già nel 2010 quattro grandi associazioni tessili in Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone avevano fissato di comune accordo il GOTS – Global Organic Textile Standard, uno standard internazionalmente riconosciuto sul tessile biologico. Quest’ultimo è al momento il certificato più esigente per quanto riguarda la produzione ecocompatibile e sociale.
E ora si aspetta il passaggio definitivo. Per una moda pronta ad “abbracciare” il mondo. Perché noi siamo ciò che mangiamo, ma anche ciò che vestiamo.

La moda si inebria di vino

Pensare, disegnare e costruire un abito è tecnicamente complesso. Un abito non è solo belle linee e colori vivaci. Un abito deve emozionare, colpire chi lo compra e, soprattutto, valorizzare chi lo porta.
Un abito dice molto della persona che lo indossa. Spesso vale più di mille parole.
Lo stesso vale per un’etichetta e il suo vino. L’etichetta è come un vestito, un biglietto da visita. Conferisce al vino un’identità, gli dà una voce, trasforma un mero liquido in una bevanda con personalità.
Se è vero che l’abito non fa il monaco, ma in certi casi la regola ha una sua eccezione, l’etichetta di un vino dice tutto di sé a coloro che di vino se ne intendono solo come consumatori. L’etichetta deve catturare, evocare immagini e portare, infine, all’acquisto. Così si chiude il cerchio.

In un mercato estremamente competitivo come quello di oggi, anche un vino, per diventare di tendenza, deve garantirsi un’immagine di impatto e convincente.
Cosa c’è di più adatto, quindi, che far costruire un abito alla moda per un vino a coloro che la moda la studiano?
Questa è stata l’idea dei conti Passerin d’Entrèves, nobile famiglia valdostana che risiede da qualche anno nei dintorni di Vinci, nella splendida tenuta Dianella Fucini, dove visse ed è sepolto il poeta Renato Fucini.
Qui, in novanta ettari di terreno, di cui ventitre coltivati, i Passerin d’Entrèves hanno creato un vero e proprio business dove, però, c’è posto anche per il lato creativo e romantico della professione: dare vita a vini e oli ricchi di sapore e densi del gusto delle terre toscane.

La famiglia d’Entrèves ha deciso di coinvolgere alcuni studenti dell’Istituto di Fashion Design & Marketing Polimoda per far disegnare loro l’etichetta del nuovo vino rosé, All’Aria Aperta, che si chiama così in onore di una raccolta di poesie di Renato Fucini.
Gli allievi Polimoda coinvolti nel progetto sono stati quindici. La sfida era partire dal nome del vino e dalle poesie di Renato Fucini per creare un’etichetta non solo adatta al nuovo rosé, ma anche in linea con la storia di tradizione e innovazione che caratterizza Dianella Fucini.
Il 13 marzo, presso la sede di Polimoda, Villa Favard, una giuria composta da alcuni docenti dell’Istituto e dalla contessa Veronica Passerin d’Entrèves ha scelto tra i sei lavori rimasti in gara, i tre finalisti. Anzi, le tre finaliste. Una competizione in rosa per un nuovo rosé.

Il 20 marzo, proprio a Dianella Fucini, si è tenuto un evento speciale per decretare l’etichetta vincitrice. Una giuria composta dai conti d’Entrèves, da alcuni esperti e giornalisti del settore food & wine e dai rappresentanti di Polimoda ha nominato vincitrice Elena Bertocchi, 24 anni, bergamasca.
La sua etichetta, secondo la giuria, é quella più in linea con il senso estetico, lo spirito di innovazione e il rispetto della tradizione che caratterizza la produzione di Dianella Fucini.
Un’etichetta futurista. Un intreccio di A che ricorda quello delle viti e che riprende l’allitterazione della lettera nel titolo della raccolta di poesie di Fucini. All’Aria Aperta, appunto.
La seconda e la terza classificate sono Sophie Gemelli, aretina di 20 anni e Francesca Gonelli, 21 anni di Pisa.
Alla vincitrice va una borsa di studio del valore di 500 euro, una targa e una bottiglia di rosé con la sua etichetta.

Moda d’Africa. Novità, Successo e Speranza.

SOUNDTRACK: Des’ree Life

Africa. Immense distese di sabbia, caldo sole in un eterno tramonto, raggi bollenti che toccano la pelle, è calore, è passione.
Una passione che prende e coinvolge, e che la moda recupera ad ogni cambio di stagione. Dimenticate il brutto tempo, è tempo di estate, è tempo di Africa.

Lunghi abiti zebrati, aderenti fasce maculate, grossi e rigidi bracciali,  lunghe e colorate collane: luoghi comuni o imponente verità? Realtà passata e presente, perchè nella moda tutto torna. Ma mentre noi sogniamo la moda che verrà, cosa succede nel continente nero? Novità, successo, speranza. Ecco le tre parole chiave che spiegano l’approccio africano al nuovo sistema moda.

Novità. Freschezza, e non poca ingenuità nella presentazione delle collezioni che hanno sfilato un mese fa a Lagos, capitale della Nigeria, durante l’Arise Fashion Week. Settantasette stilisti africani, hanno presentato in cinque giorni le nuove collezioni, innovative e sorprendenti, per una moda che piace. Lagos è novità. Aria di innovazione in un sistema di sfilate ormai “vecchio”. Nel ricco quartiere di Victoria Island, si è assistito a nuove situazioni, con un front-row fatto di “tutto pubblico”, dove per i posti a sedere a dettar legge è stata la regola del “chi tardi arriva male alloggia”, ed allora ecco buyers e giornalisti misti a donne comuni. Nuovi scenari per nuove situazioni.

                

 

Successo. Collezioni che hanno fatto il giro del mondo, e che sono piaciute. Passerelle colorate che pescano dalla tradizione etnica africana i colori e le fantasie, ma che nelle linee e nelle lunghezze ricordano la moda occidentale. Ce n’è per tutti i gusti. “Qui si respira un’energia e un’atmosfera unica – afferma la top model Alek Wek si percepisce, anzi si vede proprio una creatività che sulle piazze più affermate quasi non c’è più.”  Il successo c’è e si vede, lo dimostra l’invito ricevuto a sfilare a New York per cinque giovani stilisti, che sulla passerella africana hanno presentato le loro collezioni. La moda africana riscuote così consensi ed accende una speranza.

Sfilata di Oswald Boateng
Sfilata di Eijiro Amos Tafari
Sfilata di Kola Kuddus
Sfilata di Kiki Kamanu

Speranza. “Abbiamo Milano, Londra, New York e Parigi. Perchè non Lagos? – ha chiesto Penny McDonald, uno degli organizzatori – siamo stati invitati alle passerelle di New York e ci è stato chiesto di tornare a Città del Capo e in altre città, ma c’è così tanta voglia di moda a Lagos che ci sentiamo a nostro agio nella nostra idea di farne la quinta capitale della moda del mondo“.  E’ questa la speranza futura: Lagos come quinta capitale della moda internazionale.

Un sogno che diventerà realtà? Chi può dirlo, intanto cresce il sogno che le parole “novità”, “successo” e “speranza” diventino un passaggio obbligato per la realizzazioni di progetti moda futuri: che possano portare cose nuove, avere una buona riuscita, per crescere in futuro.

Louis Vuitton & Marc Jacobs: c’est la mode!

Anno 1854. Città: Parigi. Piena Rivoluzione Industriale in corso. Da qui parte l’appassionante storia di due magiche parole che evocano il lusso per eccezione, ovvero Louis Vuitton.

Dal 7 marzo fino al 12 settembre, presso il Museo delle Arti Decorative di Parigi si tiene un’imperdibile mostra dedicata a un binomio vincente, a due geniali icone della moda contemporanea: Louis Vuitton e Marc Jacobs, anima creativa della famosa casa di moda francese dal 1997.

L’esordio della Maison targata LV ha per protagonista un abile artigiano parigino alla prese con la sua modesta ditta di pelletteria che si trova ad affrontare un fervido clima di tumultuosi cambiamenti che investono il costume della società dell’epoca.

Complici quindi la Rivoluzione Industriale in corso ed il sempre maggiore numero di viaggiatori aristocratici e facoltosi, Louis Vuitton riesce a trasformare così il suo umile progetto iniziale nel fastoso impero del fashion che conosciamo oggi, diventando in primis uno dei più prestigiosi produttori di bauli di lusso in pelle.

L’allestimento, curato da Pamela Golbin, intende essere così un tributo all’estro di due geni creativi allo stesso tempo così diversi e così visionari e si snoda su due livelli principali: al primo piano lo spazio dall’appeal più storico dedicato al fondatore della griffe delle celebri stampe monogram, Louis Vuitton appunto, che viene rappresentato dalla serie di bauli da lui realizzati a partire dal 1854 fino al 1892.

Al secondo piano invece, si effettua un balzo in un presente indubbiamente più tecnologico: è di scena l’artefice del successo del brand Vuitton negli ultimi 15 anni, il noto designer americano Marc Jacobs, che viene illustrato attraverso un’affascinante retrospettiva del suo lavoro stilistico.

Esposti su manichini in movimento, assistiamo ad una carrellata delle sue creazioni relative all’ultima decade e mezzo della sua carriera.

E poi si prosegue con foto, video e anche una gigantesca e spettacolare “chocolate box” con le 53 borse firmate LV e create da Jacobs.

Il tutto a sottolineare la capacità dello stilista di tradurre in chiave contemporanea i codici stilistici più classici della Maison, tramite una rilettura che tiene conto di un’assoluta fedeltà alle origini.

Marc Jacobs frequenta la High School Of Art and Design. Si diploma nel 1981 e da lì entra alla Parsons School di New York, dove vince il Perry Ellis Thimble Gold Award nel 1984. Nello stesso anno si aggiudica anche il Chester Weinberg Thimble Gold Award ed il Design Student ofthe Year Award. Mentre studia ancora alla Parsons, Jacobs sviluppa e vende la sua prima lineadi maglieria e progetta la sua prima collezione per Reuben Thomas. In questi giorni si allea in una partnershipcon Robert Duffy della Jacobs Duffy Inc., che continua fino ai nostri giorni. Nel 1986, sostenuto da Onward Kashiyama, disegna la sua prima collezione alla quale dà il suo nome.

Nel 1987 Marc viene insignito del Perry Ellis Award per il nuovo talento di Moda dal Consiglio di Fashion Designers of America(CFDA).

Jacobs attualmente è Direttore creativo di Louis Vuitton, incarico che ricopre dal 1997. Ha guidato Vuitton in collaborazioni di rilievo come Stephen Sprouse‘s graffiti borse, Takashi Murakami‘s color pastello accessori e il primo pret-a-porter con la Louis Vuitton imprimateur.

Le sue linee di abbigliamento Marc Jacobs e la meno costosa Marc by Marc Jacobs, creata nel 2000, sono attualmente molto popolari.

Louis Vuitton fonda il marchio omonimo nel 1854 a Parigi e fu ben presto imitatissimo. Nel 1855 apre il suo primo punto vendita di Londra, a Oxford Street. Nel 1867 il brand partecipa all’Esposizione Universale di Parigi. Risale al 1888 l’invenzione del pattern Damier Canvas, nel cui logo figura per la prima volta la scritta: “Marque Louis Vuitton deposeé”. Con la morte di Louis Vuitton, avvenuta nel 1893, il controllo dell’azienda passa a suo figlio George. Nel 1896 avviene il lancio dell’iconica linea Monogram,che alle iniziali del fondatore (LV) affiancava simboli di fiori e quadrifogli ed era ispirato al design di richiamo orientale in voga nell’epoca Vittoriana.

Nel 1901 il gruppo lancia sul mercato la prima Steamer Bag. Nel 1913 viene aperta la storica boutique negli Champs Elyseés di Parigi, seguita da nuove aperture di punti vendita a New York, Bombay, Washington, Londra, Alessandria d’Egitto e Buenos Aires. Negli anni successivi sono introdotte la Keepall Bag e la Noé, la cui funzione originaria è quella di trasportare bottiglie di champagne, e in seguito anche la Speedy, uno dei bestseller della Casa francese.

A partire dal 1977 e sotto la guida di Odile Vuitton (nipote di George) e suo marito Henri Ricamier, il marchio diviene una multinazionale quotata anche alla Borsa di Parigi. In quell’anno avviene anche la jointventure col gruppo del lusso Moet Hennessy, da cui il nome Moet Hennessy Louis Vuitton SA, il cui acronimo è LVMH.

Oggi l’azienda rientra nei maggiori produttori di beni di lusso, vantando un fatturato di 14,3 miliardi di dollari e 300 filiali in tutto il mondo, oltre a un esclusivo sito internet ufficiale, www.louisvuitton.com dove è possibile acquistare un prodotto LV da casa.

Andrej, i due volti della bellezza

Dalla bocca del commediografo Aristofane, Platone spiegava nel suo Simposio l’esistenza di un terzo sesso, l’androgino, simbolo di perfezione e completezza, discendente diretto della Luna. Una dimensione altra da cui sembra provenire anche Andrej Pejic, personaggio liminare, figura quasi fuoriuscita da vecchi libri fantasy, fatti di fate, folletti ed elfi del bosco. Capelli lunghi color platino, corpo scolpito, sguardo ammaliante, tra il divino e il diabolico. Difficile capire la sua vera identità a prima vista. “Chi è questa bionda?”, dicono tutti. Eppure Andrej non è altro che un ragazzino di 21 anni, nato a Tuzla, in Bosnia-Herzegovina, da padre croato e madre serba, figlio della multiculturalità e del multirazziale, di un paese in guerra e del sangue versato su una terra troppo disomogenea per restare unita. A soli 8 anni, sotto i bombardamenti NATO, fugge a Melbourne, in Australia, verso una nuova vita, quella che lo porterà al successo, meno di dieci anni più tardi. Rincarnazione contemporanea di un antico mito, di quel fascino che da secoli incanta la fantasia umana, tra venerazione, stupore e scetticismo. Lui, lei.

Ora quell’ambiguità, quella bellezza continuamente ricercata dall’arte e dall’estetica, si è fatta carne. Così è stato facile per Andrej iniziare la sua carriera nel mondo della moda, scalando le vette più alte, adorato e vezzeggiato da stilisti come Marc Jacobs e Jean Paul Gaultier, per il quale sarà il nuovo volto dell’eau unisex Kokorico. Un corpo reversibile, conturbante nel completo da uomo, con camicia e cravatta, sensuale nell’abito lungo, con scolli e trasparenze. Da un lato, in lista tra i top model più pagati e tra le donne più sexy del mondo, dall’altro, oggetto di scandalo e critiche feroci, perché fotografato con uno stretto push-up prodotto dai magazzini olandesi Hema. Andrej, volto dell’inconcepibile, del non conforme a quella che chiamano “normalità”, del non classificabile, dello sconosciuto. Ma anche, Andrej futuro della moda, di quell’eterno ritorno e di quella capacità di sostituire entrambi i sessi, dimostrato sulla copertina del gay and lesbian magazine OUT, quando, con tanto di pitone avvolto al suo corpo nudo, imitava la famosa posa di Nastassja Kinski, pubblicata su Vogue nel 1981.

Intanto, su questo singolare prodotto di madre natura, le voci non fanno altro che circolare. Gli obbiettivi di osservarlo, ovunque. C’è chi lo paragona ad un’altra stupenda contraddizione del fashion system, Lea T., la modella transgender nata come Leandro Cerezo, amica e musa di Riccardo Tisci, per il quale ha posato e sfilato in abiti Givenchy. Ma Andrej non è il frutto di una lotta interiore e sociale, né la vittoria di una donna e dei suoi diritti. Andrej sorride, schivando con un pizzico di sana civetteria le domande dei curiosi sul suo orientamento sessuale e divertendosi nel rivendicare un’indecisione costruita ad arte per far parlare di sé: bene così, è il suo momento. In fondo, alla debolezza umana i giochi degli dei son sempre piaciuti.

Jil Sander, tra addii e ritorni all’origine

Non bastava un semplice applauso per salutare Raf Simons, fashion designer belga, classe 1968, direttore creativo del marchio Jil Sander dal 2005. Nessun petalo di rosa, come è successo a Tom Ford nell’ultimo giorno presso Gucci, ma una spontanea standing ovation a fine sfilata, con tanto di lacrime di commozione e dedica gestuale dello stilista al suo pubblico, “Vi amo tutti”. Uno spettacolo raro per il gelido e composto ambiente modaiolo, soprattutto durante un evento così importante come la Milano Fashion Week. Eppure, nonostante l’impegno degli ultimi sette anni, nonostante le novità apportate e i successi, il cambio di guardia è divenuto realtà. La tedesca Heidemarie Jiline Sander, detta Jil, fondatrice dell’omonimo luxury brand, tornerà al vertice dell’ufficio stile, mentre per Simons e per il suo bagaglio di esperienza, chissà. Voci squillanti, sul web come sulla carta stampata, non fanno altro che accostare il suo nome alla maison Dior, additandolo come il successore di John Galliano, mentre lui fatica ad uscire dal backstage riservato a pochi intimi, tanto è triste il suo addio.

Una collezione impeccabile e languida, come gli ampi cappotti di flanella dalla linea a trapezio e senza collo, simili a sensuali kimono. Languide anche le leggere sottovesti e i candidi abiti bustier, dalla gonna ora a tubo ora ampia e morbida dall’allure retrò. Principesse eteree come Grace Kelly moderne, avvolte da un mix di tessuti opachi e metallici con rimandi all’Art Deco, ondeggiano tra le sei colonne che dividono la passerella, sormontate da delicati bouquet di rose racchiusi in involucri di vetro, quasi per proteggerne bellezza e odore.

Rosa cipria, celeste, bianco, cammello, blu e rosso ciliegia che, con il susseguirsi delle uscite, si trasformano in pezzi total black dai dettagli in vernice, degni di una femme fatale sospesa tra passato e futuro. Gonne al ginocchio, pochissimi pantaloni palazzo e clutch rigide in pelle e cristalli accompagnano il passo leggero delle modelle, ritmato dalla melodica “Tonight tonight” degli Smashing Pumpkins. Una forte scossa di emozione pervade la sala. Gridano tutti il suo nome. Pochi cenni ad occhi rossi e lucidi. La sfilata è terminata. The show must go on.

Fashion Love-Story #1 | Karl Lagerfeld e la giacca nera

Chi meglio di lei ha fatto la storia della moda e del costume diventando in breve tempo un autentico passe-partout per ogni occasione e simbolo di una donna che vuole emanciparsi con determinazione dai luoghi comuni assumendo uno stile dai tratti sempre più indefiniti e androgini? Ma la giacca nera, of course.

Questa volta la giacca nera viene celebrata dall’eclettico Kaiser del fashion internazionale Karl Lagerfeld in collaborazione con il Direttore di Vogue France e icona del glamour Carine Roitfeld attraverso un bellissimo volume iconografico da collezione intitolato per l’appunto The little black jacket: a Chanel’s classic rivisited by Carine Roitfeld and Karl Lagerfeldedito da Steidl e in uscita il prossimo autunno.

La formula vincente è composta dalla giacca più l’iconico colore nero, tonalità intramontabile per eccellenza, assurti a simbolo e dunque a veri e propri classici e must-have nel guardaroba di ogni donna contemporanea.

E’ proprio grazie alla celebre Maison dalla doppia C e quindi all’estro sartoriale di Gabrielle CocoChanel che a partire dagli anni ’50 il blazerriesce a farsi strada dasolo fino a far brecciain ognilook femminile

Quel capo dal taglio simmetrico ed essenziale creato da Coco, inedito fino ad allora, diventa così il filo conduttore di ogni successiva collezione di Chanel, che a partire dal 1983 e grazie all’estro creativo di Karl Lagerfeld la consacra a vero e proprio “classico” delsuo repertorio: in jersey o in tweed sono le giacche e i twin-set della famosa Casa di moda parigina che dettano legge in fatto di stile ed eleganza.

Nel libro viene scoperto e “ufficializzato” il carattere inaspettatatamente versatile della giacca nera della Maison, che attraverso il potente impatto delle bellissime immagini delle pagine del volume, viene “comunicata” e illustrata nelle sue mille sfaccettature: il compito di raccontare la giacca viene quindi egregiamente affidato alle 100 fotografie scattate da Monsieur Karl in persona.

Sulla sua passerella ideale sfilano dunque tante protagoniste ed eroine della storia dello stile, della cultura e dello spettacolo che l’hanno interpretata (e amata) in maniera spesso originale: dall’allure stravagante dell’attrice americana Sarah Jessica Parker allo stile neo-punk di Alice Dellal passando per un’icona di stile che più francese non si può: Vanessa Paradis, cantanteattrice, il cui angelico volto è apparso spesso per molte campagne pubblicitarie firmate Chanel, incarnando alla perfezione l’ideale estetico della celebre Maison ambasciatrice del lusso francese nel mondo.

Da segnalare infine la presenza di una serie di eventi che accompagneranno l’uscita del libro, tra cui un’imperdibile mostra fotografica che si terrà a Tokyo dedicata a questo capo cult dei nostri tempi .L’atteso evento funge così da vera e propria preview all’uscita del libroe aprirà al pubblico il prossimo 24 Marzo proseguendo fino al 15 Aprile.

Anna Wintour for Obama

Cosa succede quando il sistema moda si affaccia con stile e determinazione nel mondo della politica? Il risultato dell’incontro genererà sicuramente vere e proprie faville.

E questo lo sa bene Mrs Anna Wintour, a capo di Vogue America edirettore editoriale più spietato del mondo, che, a distanza di 4 anni dalla prima, ha pensato bene di riproporre la nuova campagna elettorale per la rielezione del Presidente degli States Barack Obama.

Il nuovo evento si affaccia nel fashion system in concomitanza della settimana della moda di New York e giunge come naturale prosecuzione della campagna originaria di supporto al candidato democratico per le Presidenziali del 2008 intitolata “Runway to change” presentata sempre dalla stessa Wintour e che ha senza dubbio procurato una cospicua fortuna all’ascesa politica di Obama.

Runway to win” è il lungimirante nome del secondo “inno di incoraggiamento” alla prossima vittoria elettorale di Barack Obama targato Wintour e della strategica operazione con cui la direttrice della “Bibbia dello stile” nel mondo esce allo scoperto dichiarando senza mezzi termini la sua innata fede democratica.

Quindi ecco che a sostegno della prestigiosa causa sono stati chiamati dal direttore di Vogue in persona un golden team di 20 designers contemporanei tra i più influenti di questo periodo: si va da StellaMc Cartney a Derek Lam, da Vera Wang a Tory Burch e Rachel Roy, da Marc Jacobs a Diane Von Furstenberg.

Tutti coinvolti dalla Wintour, che ha loro chiesto di creare ad hoc dei pezzi unici che sono stati poi resi noti nel corso dell’esclusivo party presentato insieme all’attrice Scarlett Johansson esvoltosi il 7 febbraio scorso presso il Theory, nel Meatpacking District di New York, al quale hanno presenziato diversi personaggi della moda e dello showbiz.

La very special collectionè stata poi presentata tramite un’anteprima sul web, dove sono ancora acquistabili, nonostante la maggioranza sia comunque andata in breve tempo sold out.

Tutti i capi disegnati per l’iniziativa si contraddistinguono comunque per l’alluresportiva e piuttosto cheap: infatti i prezzi, davvero “easy”, dei vestiti e degli accessori oscillano tutti tra i 45 e i 95$.

Ogni articolo è un piccolo tributo creativo alla nazione americana firmato da ognuno degli stilisti partecipi al progetto: La Von Furstenberg ha disegnato una borsa rossa, bianca e blu, la “Love bag”, che richiama chiaramente i colori della bandiera americana con i cuoricini al posto delle stelle, Marc Jacobs, invece, una semplice t-shirt da 30 euro su cui campeggia lo slogan breve ma efficace: “I vote Obama”, mentre Rachel Roy ha optato per un top bianco con una bandiera stampata.

L’auspicio è che si riescano a raccogliere i fondi necessari alla campagna elettorale di Obama ma che allo stesso tempo, quest’evento raccolga lo stesso successo delle precedenti iniziative lanciate dalla fashion icon in persona, che, consapevole di incarnare il simbolo del potere mediatico della moda sulle masse, riesce sempre e comunque a dettare stile e a far parlare di sé.

 

Milano Moda Uomo, eleganza ed avanguardia tra presente e passato

Milano, Moda, Uomo. Triade perfetta che incarna l’heritage del Belpaese.

Sfila in passerella un uomo poliedrico, che recupera la tradizione e l’eccellenza made in Italy, figlio dell’arte e della lotta di classe,ma contemporaneamente proiettato verso il futuro. Un futuro sussurrato, quasi accennato da dettagli e tessuti innovativi. Eleganza ed avanguardia, facce di una stessa medaglia.

Da Prada a Dolce & Gabbana, da Burberry Prorsum a Gucci, va in scena l’eleganza.

Atmosfere militari e parodia del potere chez Miuccia Prada. La signora di ferro della moda italiana, mette a segno un colpo magistrale dando vita a una kermesse unica. Allure militar-chic e atmosfere retrò sfilano in passerella, un red carpet declinato al maschile con vere stelle hollywoodiane. Da Adrien Brody a Willelm Defoe, da Gary Oldman a Tim Roth, iconiche citazioni cinematografiche, letterarie e riferimenti artistici si concretizzano su cappotti a doppiopetto, su rivisitazioni di divise asburgiche e robe de chambre da vampiro. Occhiali rossi , tondi da Otto Dix fanno capolino su giacche e capospalla. Tra rigore e goliardia va in scena la fenomenologia del potere .

Da Wunderkammer manierista a salotto fanè: così si presenta lo scenario della sfilata di Dolce e Gabbana. Una nobiltà d’antan sfila in passerella sulle note di un verdiano Rigoletto. L’ultima parvenza di ricchezza impreziosisce giacche e maglioni dai ricami a foglia oro di barocca memoria. Uscita finale: 70 cappotti di una bellezza mozzafiato, tailor made, che vanno dal pastrano di foggia militare completamente intessuto da ricami talari, al classico doppiopetto nero con collo e interni di astrakan, omaggio alla magnificenza italiana. Un’apoteosi. La storia lascia il posto alla modernità e la mantella siciliana, la Tistera diventa paltò, pantaloni di velluto si trasformano in jeans sdruciti, unico vezzo un papillon che richiama il romanticismo di un tempo, quando al posto di auto c’erano carrozze e invece di sms, lettere d’amore che raccontavano una storia di fin de siècle.

Sfila l’uomo Gucci, poeta maledetto, figlio di Charles Baudelaire. Questa volta Les Fleurs du mal non li legge, li indossa. Velluto devorè e broccato, adornano abiti e blazer, pantaloni skinny e giacche slim fit in seta jacquard, in netto contrasto con cappotti oversize. Cromatismo e motivi floreali percorrono i tessuti, una palette di colori declinata nei toni del blu, verde e bordeaux dai toni caldi, si manifesta su abiti e borsoni. Ermeneutica moderna di un dandy bohemien. Il nichilismo proprio del decadentismo, non vince sul sogno e sul romanticismo. Tra distruzione, vizi e vita dissoluta, Gucci fa rinascere un uomo grazie al potere salvifico dell’arte. Un dandy diventato un romantico a Milano grazie alla musica dei Baustelle.

It’s raining day. Una pioggia digitale apre la sfilata di Burberry Prorsum, il british style si reifica non solo nei cappotti e nella tradizione sartoriale ma questa volta il vero e proprio deus ex machina è l’accessorio. Come al 221B di Baker Street, odierni Sherlock Holmes transitano in passerella indossando capispalla ineccepibili. Trench, piumini-couture e giubbotti, accorciano le misure e lasciano intravedere giacche craftsmainship. Il twist retrò degli ombrelli, vero oggetto feticcio di questa collezione, si contrappone all’anima moderna di guanti in pelle studded effect, declinati in diversi colori. Teste di levriero, ariete e civetta, spiccano su ombrelli, effige di un gentleman dall’aria retrò.

Ricerca, fluidità di tessuti e riferimenti avveniristici nelle collezioni autunno-inverno di Bottega Veneta, Jil Sander e Roberto Cavalli.

Tomas Maier direttore creativo di Bottega Veneta porta in scena un uomo moderno, dall’urban style. L’eleganza slim fit delle giacche è spezzata da stripes colorate e tagli laserati. Sovrapposizioni, materiali e colori inaspettati, in piena tendenza colour blocking, trovano dimora su shearling e blazer sartoriali. Cut out e inserti in pelle spuntano da giacconi e paltò. Un tocco grunge è dato dall’effetto used di maglioni e jeans e dalla vernice che dona una veste liquida ai tessuti. Mocassini con tacco dal’anima pitonata, accessori originali per un uomo che si reinventa.

Dal fantasy al fairy tale, Roberto Cavalli e Jil Sander rimodellano il mood delle loro maison.

Figlio del lato oscuro, in costante ricerca della verità, l’uomo Sander supera le sue paure più recondite, lasciandosele alle spalle. Dinosauri, balene e piccoli mostri sono ricamati su maglioni e blazer, quasi a voler spezzare quella tensione emotiva in favore di una certa ilarità. Cloni di Matrix incedono in passerella in bilico tra perversi replicanti e business man.

Il delfino di casa Cavalli rigenera la collezione e la trasporta in una visione onirica sulle note di un jazz live.”The charmer” l’incantatore di serpenti di volta in volta si trasforma in altro da sé. Grafismi, stampe animalier su camicie e giacche, sprazzi di colori pastello dal rosa confetto al giallo ranuncolo,una mascolinità frivola stampata su abiti fancy. Metamorfosi moderne, nuance fluo, e rovesciamento bachtiniano dei valori, tutto in nome del caos primordiale, linfa stessa dell’esistenza umana.

Eleganza e sperimentazione, silloge di un universo chiamato moda.

Lady Gaga & Therry Richardson, istantanee di ordinaria follia

SOUNDTRACK: Lady Gaga – Marry The Night  
Visionario,  dissacratorio, borderline. Semplicemente un genio. Terry Richardson non usa sovra strutture, né artifici, ci sono solo l’obbiettivo di due instant-camera impugnate contemporaneamente, luce e passione.

Istantanee di vita impressionate nella sua reflex, campagne pubblicitarie censurate e star ritratte nelle loro passioni più recondite.

Un destino scritto nel dna, il suo: con una madre stylist di moda e con un padre,  il  famoso fotografo Bob Richardson, la sua vita non poteva andare diversamente. Gusto estremo anche per la musica, vista la sua collaborazione per 5 anni con il gruppo punk-rock The Invisible.

Grazie a Tony Kent, che lo ha accolto nel suo studio come assistente, si è avvicinato alla macchina fotografica. Una carriera folgorante per questo enfant terrible americano.

Dalle campagne pubblicitarie più famose, ai limiti dell’hard, fa discutere quella per Sisley, alle foto di 11 modelle curvy dalla sensualità procace, immortalate sul magazine Vice, dal Calendario Pirelli 2010 che trasuda nudo eros giocoso, alle accuse di molestie sessuali, non ancora confermate, il rocktografo, come lui stesso si definisce, non smette di catalizzare l’attenzione su di sé. Anzi rincara la dose in grande stile.

Questa volta intrappolata nel suo obbiettivo, c’ è finita niente di meno che Lady Gaga, nome de plume di Stefani Joanne Angelina Germanotta, italoamericana, star e fashion icon del panorama pop internazionale.

Da Lollapalooza ai Grammy  Awards 2011, Richardson l’ha seguita, behind-the-scenes, per dieci mesi stando sempre sul pezzo. Vita privata, Monster Ball Tour, curiosità e risvolti scabrosi. Risultato? 100.000 scatti, 450 inediti, a colori e in bianco e nero, foto rubate alla sua quotidianità e ai suoi vizi più pruriginosi. Dagli MTV  Video Music Award allo show parigino di Mugler, chez Maxime, dalle lezioni di yoga in lingerie, alle foto in vasca da bagno vestita, Richardson ha catturato l’anima di Lady Gaga come non l’avete mai vista.

Ci ha  abituato all’incredibile Miss Germanotta con le sue performance teatrali, i suoi look all’eccesso, risultato di una liaison artistica con  Nicola Formichetti, stylist e direttore creativo di Mugler.

Metamorfosi, installazioni avveniristiche e  zoomorfiche. L’arte che supera l’arte e la porta ad un livello superiore, futuristico. Il sodalizio con Richardson risale a “The nude truecover di Vogue Giappone in cui Lady Gaga indossa un vestito di carne realizzato da Formichetti e impressionato dal rocktografo. Arte allo stato puro, centro nevralgico dei suoi scatti, moderna, contemporanea, purché trasportata nel presente.

Genio maschile e follia femminile reificati in 350 immagini. Gli ormoni impazziscono, gli atomi si elettrizzano e BAM si genera un’ esplosione nucleare.

Lady Gaga X Terry Richardson: un libro che brucia nelle fiamme della perversione.

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