Quando la minigonna non rappresenta la libertà

Prima erano lunghe, poi corte, cortissime, di nuove lunghe, e poi sopra il ginocchio fino a sparire. È l’evoluzione dell’abbigliamento del gentil sesso, e in particolare del capo che un po’ è il simbolo dell’essere donna: la gonna. Un evoluzione, che tuttavia, non cammina sulla stessa lunghezza d’onda del cambiamento del ruolo femminile nella società attuale. Basta guardarci ai giorni nostri: siamo nude, ma non siamo più libere di quanto lo eravamo qualche tempo fa.

Certo è che negli anni passati le costrizioni del “sesso debole”, come molti lo definiscono, si esplicava anche attraverso bustini e cinture castità. Ma oggi che abbiamo buttato alle spalle tutto ciò che copre la pelle, di sicuro non possiamo dire di non avere più così tanti limiti, insomma di poter camminare di pari passo con il genere maschile.
Ed è interessante volgere uno sguardo al passato e cercare di capire cosa è cambiato, anche osservando come si è evoluto il nostro guardaroba, quando sono iniziate ad entrarci giacche, pantaloni, gonne e tailleur: insomma cosa indossava la donna ieri e cosa indossa oggi. E soprattutto quanto i suoi indumenti hanno influenzato, e se lo hanno fatto, il suo ingresso in società.
Sicuramente un grande svolta nell’abbigliamento femminile si è avuta negli anni ‘60 quando Mary Quant propose una novità davvero rivoluzionaria: la minigonna. Fu questo un distaccarsi da tutto ciò che si era state in precedenza. Di sicuro già in quegli anni il genere femminile aveva dimenticato da almeno un secolo i bustini tipici dell’ottocento che la costringevano quasi a non poter respirare. Allora dominava questa idea di donna-bambola. Casalinga perfetta e simbolo di ordine e calma. Ma, senza retrocedere così tanto negli anni, già  all’inizio del 1900, c’è stata un’evoluzione. Basti pensare al tailleur, che prende il nome dal termine usato in francese per indicare il sarto da uomo: composto da giacca e gonna, era un completo femminile inventato dall’inglese Redfern come derivazione dell’abito maschile, su committenza della principessa del Galles.
Solo dalla fine del XIX secolo poi questo capo passò da indumento riservato a occasioni informali e solo al mattino, a modello della vita attiva con una forte connotazione di libertà (anche nei movimenti), quasi a segnare i progressi dell’emancipazione femminile.
Già agli inizi del XX secolo infatti la nuova donna aveva esigenze di praticità e di un abbigliamento consono ad una vita più dinamica e talvolta anche priva di etichette. A Vienna l’architetto Adolf Loos, uno dei fondatori del Razionalismo europeo, scrisse che la moda esprimeva l’emancipazione e nel 1908 pubblicò “Ornament und Verbrechen (Ornamento e Delitto)”, un testo provocatorio in cui sottolineava l’utilità sociale della produzione di oggetti dalle linee essenziali e di forma semplice.
Ma gli abiti femminili non rimasero estranei neanche ai futuristi. Fu l’artista francese Sonia Delaunay che, con il marito Robert Delaunay e altri, fondò il movimento artistico dell’orfismo, noto per il suo uso di colori forti e geometrici, che si applicò al disegno di tessuti per abiti coloratissimi e dai motivi astratti. Pian piano anche nelle tonalità dei vestiti indossati, la donna riuscì ad esprimere se stessa e passo dopo passo, giorno dopo giorno, così si arrivò agli anni ‘50, quando si affermò l’idea di cosiddetta alta moda e in Francia non poteva che esserci Dior che fece di Parigi la capitale indiscussa delle sfilate.
Con i figli dei fiori invece il cambiamento fu radicale: negli anni 60, anche l’intimo si ridusse, quasi a voler testimoniare un senso di libertà che la donna aveva conquistato e che non la teneva più legata a tutto ciò che era materiale, e questo valeva anche nella moda. Ed è proprio con l’affermarsi delle minigonna che in questi anni parve che il sesso femminile avesse conquistato una maggiore sicurezza di sé.
Una mentalità questa che oggi ha perso tutte le origini dalle quali è nata. Siamo sempre più nude, ma nello stesso tempo, non siamo più libere di molti anni addietro. A testimonianza del fatto che esser riuscite a superare il limite del terribile bustino, non vuol dire aver raggiunto la parità.
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