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“Lost in jeans”, a Roma la mostra che celebra il capo iconico e rivoluzionario

 

“Lost in Jeans”  è la mostra– evento che, alla Città dell’Altra Economia di Romacelebra l’importanza del jeans e della sua storia: un capo intramontabile, simbolo delle più importanti rivoluzioni culturali e sociali, raccontato attraverso un percorso che abbraccia passato, presente e futuro. La rivoluzione senza fine parte dal presupposto che il jeans è un capo iconico, che con la sua semplicità rappresenta la risorsa indispensabile nell’armadio di tutti, e che fa della sua predisposizione alla customizzazione il suo non passare mai di moda. 

“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma
“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma

L’evento sarà articolato in diverse sezioni: una parte espositiva, con la mostra che racconterà la storia del jeans attraverso una narrazione fotografica. All’interno del percorso della mostra si farà riferimento non solo alle origini del tessuto denim e alla nascita dei pantaloni di jeans, ma si porrà l’attenzione anche sui contesti iconici (moda, cinema, musica, arte, pubblicità…) che hanno contribuito alla fama di questo incredibile capo di abbigliamento nel corso dei decenni. Un percorso da fruire liberamente, fatto di foto e video, caratterizza l’atmosfera di questa mostra.

Un’area verrà dedicata a personalizzare dei capi jeans: gli ospiti potranno richiedere la personalizzazione live del proprio capo in jeans/denim, che  sarà realizzata da tre artiste: Rebecca Papi,  formatasi presso l’Accademia di Belle Arti a Roma per poi approdare nel mondo della customizzazione con uno stile in cui predomina l’influenza street con un tocco scintillante; Amelia Privitera brillante psicologa che ha fatto del ricamo la sua vocazione e il veicolo di un messaggio di benessere ed espressione di sé; Amanda Valentini, che costruisce la propria arte fatta di linee e colori tra L’Accademia di Belle Arti di Roma e quella di Brera a Milano, e che attualmente, promuove la propria arte attraverso la collaborazione con una giovane start up riconosciuta a livello internazionale “Looking for art”.

“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma
“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma

Una sezione è dedicata al retail, e qui si potrà dialogare e acquistare da commercianti specializzati dei capi jeans vintage; Lost In Jeans vedrà infatti anche la presenza di due negozi di vintage e second hand: “Seconda Chance” di Samantha Franconieri e “Latini34 Vintage”, rispettivamente per donna e per uomo, che intendono promuovere non solo un acquisto responsabile e cult che vada oltre il fast fashion, ma soprattutto un vero e proprio stile di vita. Tra pantaloni, giacche, camicie e gonne dal sapore sia glamour che retrò, gli ospiti avranno la possibilità di regalarsi abiti di grande qualità e ad impatto zero.

Un’attenzione speciale è dedicata allo styling, poiché a disposizione degli ospiti verrà allestito un corner dedicato completamente alla consulenza d’immagine grazie alla presenza di una professionista del settore: Caterina Fracasso. Con consigli pratici e suggerimenti personalizzati, e soprattutto rispettando il modo di essere e lo stile personale di chi si affida a lei, riesce ad esaltare le caratteristiche del singolo e a valorizzarlo attraverso un nuovo punto di vista. 

“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma
“Lost in Jeans”, Città dell’Altra Economia di Roma

Grande importanza verrà data al linguaggio dell’arte, con un omaggio alla famosa opera di Pistoletto del 1967  “La venere di stracci”. L’intento è quello di evocare una delle possibili chiavi di lettura dell’opera originale che risulta estremamente attuale oggi come alla fine degli anni ‘60: Pistoletto ha voluto proporre una riflessione provocatoria sul consumismo e sulla produzione di rifiuti ingombranti. Nasceva prima e cresce oggi la sensibilità della comunità globale nei confronti dell’ecologia. È l’occasione quindi di soffermarsi a riflettere sul futuro rapporto tra moda e ambiente. L’evento è a ingresso liberoTutti gli ospiti avranno la possibilità di portare con sé uno o più capi denim da far personalizzare dalle artiste partecipanti all’evento, o per approfittare dell’evento per riciclare o dare via i propri jeans .  L’evento è organizzato in collaborazione con l’istituto Ied di Roma e si svolgerà presso Città dell’altra Economia, che nasce come luogo di promozione di tutta l’altra economia romana, offrendo momenti e spazi di cultura, incontro, formazione, ricerca e sviluppo; situata in uno dei quartieri storici e più suggestivi della capitale, Testaccio.

Photo credits Courtesy of Press Office

“Tigu Beach”, un’esperienza immersiva sul Golfo del Tigullio

Sulle acque cristalline del Golfo del Tigullio, nei pressi di Sestri Levante, si affaccia Tigu Beach, un elegante stabilimento balneare che, per la stagione estiva 2023, vestirà Paul&Shark.

Tigu Beach
Tigu Beach

Un progetto ideato dall’imprenditore Edoardo Santanna, storico proprietario di Tigu Beach, la cui famiglia si occupa da anni di hôtellerie, e Mattia Ferrari anima internazionale e creativa.
Il beach club, completamente rinnovato, accoglierà i suoi ospiti in un’atmosfera da appartamento francese degli anni ’40.

Tigu Beach
Tigu Beach

La scelta d’arredo include sedute e tavoli che richiamano alla mente i bistrot delle vie parigine, mentre le nuance di tè verde della pavimentazione e verde bosco dei dettagli del mobilio rimandano alle patisserie storiche.

Tigu Beach
Tigu Beach

I 54 lettini standard insieme ai 10 Vip bed, posizionati nella Paul&Shark Lounge, compongono un colorato quadro vista mare, con pattern a righe in raffinate nuance verde salvia e arancio, mixate al bianco e all’écru.

Tigu Beach
Tigu Beach

Una variegata offerta food completa l’esperienza all’interno di Tigu Beach:
il primo ristorante da 60 coperti circa è di impronta mediterranea con una cucina sperimentale ma del territorio; il secondo è un ristorante di stampo Giapponese con 30 coperti, la cui proposta è curata da due esperti sushiman del ristorante Kisen di Milano.

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Essenza Maori: in viaggio tra i miti e le leggende proibite della Polinesia selvaggia

Poste metà strada tra la Nuova Zelanda e le Hawaii, le Isole Cook sono rimaste tra le poche mete long-haul internazionali Covid-19 Free. Il distaccamento forzato dal resto del mondo è stato necessario per tutelarsi ma si è rivelato anche utile per velocizzare un processo di riscoperta dei valori e delle tradizioni di questo piccolo paradiso. Già 15 anni fa si era dato il via ad un’analisi introspettiva riportando nelle scuole l’insegnamento della lingua Maori, oltre all’inglese, allo scopo di valorizzare l’aspetto culturale e storico non disdegnando, però, il supporto della tecnologia.  Si dice, infatti, che per conoscere bene un luogo ed il suo popolo, sia importante anche avvicinarsi alla lingua locale… Per questo, nel 2017, è nata Hika Kia Orana, applicazione che permette ai visitatori (e non solo) di tradurre istantaneamente dall’italiano al Maori non solo frasi pratiche di viaggio, ma anche canzoni e preghiere locali. La volontà di conservazione insita in ogni Cookiano è strettamente legata ai Kia Orana Values e, in particolare, allo spirito del Mana Tiaki, la responsabilità che ogni abitante sente nel cuore di tutelare e preservare per le generazioni future la cultura ed il patrimonio ambientale del piccolo paradiso. Ecco allora qualcuno di quei tratti culturali che questo popolo straordinario tramanda con successo da secoli.

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Le origini

Gli abitanti delle Isole Cook sono discendenti dei veri polinesiani, i migliori navigatori del Pacifico. Circa l’87% dei cookiani è rappresentato, infatti, da autentici Maori che nel IX secolo partirono da Hawaiki, la loro terra d’origine, verso Aotearoa, la “terra della lunga nuvola bianca”, l’attuale Nuova Zelanda. Una conoscenza sofisticata della navigazione li ha portati, senza paura, alla ricerca di nuove terre. Il loro coraggio, la loro abilità e la loro forza superarono avventurieri leggendari provenienti dal Portogallo o dalla Spagna, così come gli olandesi o gli inglesi. Dal 1.500 AC le isole polinesiane venivano gradualmente popolate dagli antenati Maori che sbarcarono nelle loro Vakas (magnifiche giganti canoe a doppio scafo) guidati dalle stelle e dal loro famoso potere di navigazione. La Vaka più famosa qui è sicuramente la tradizionale Marumaru Atua, orgoglioso simbolo delle Isole Cook che appartiene, di fatto, al suo popolo. Dal 2012, Marumaru Atua ha navigato solo grazie alle antiche mappe stellari in tutto il mondo, senza strumentazione, in rappresentanza dei Cook Islanders, promuovendo il turismo in questo piccolo paradiso, e prevede di continuare a funzionare come “aula galleggiante”, per condividere l’orgogliosa storia del viaggio nel Pacifico con gruppi scolastici locali e turisti, per il whale-watching e per motivi di ricerca ambientale per  “Marae Moana“, la più grande riserva marina del mondo.

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I canti proibiti diventano inni

Nel 1821 i primi missionari cristiani guidati dal reverendo John Williams della London Missionary Society fecero del loro meglio per arginare quelli che consideravano desideri carnali degli abitanti, che in realtà rappresentavano l’eredità culturale degli isolani di Cook. Non era permesso cantare, ballare o suonare. Il loro arrivo ha alterato lo stile di vita tradizionale, ma in qualche modo gli abitanti delle Isole Cook sono riusciti a preservare magnificamente la loro orgogliosa eredità polinesiana e fonderla con la loro fede cristiana. Anche se non siete praticanti, non perdetevi la messa domenicale nella cattedrale di Avarua, recitata in lingua in Maori. È uno spettacolo nello spettacolo, cappellini di ogni foggia e colore indossati dalle donne, abiti di lino bianco, borsette di paglia e foulard, mentre vengono intonati canti sacri e melodie.

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Le leggende antiche

Ina e lo squalo

Vi siete mai chiesti come mai gli squali abbiano un incavo sulla testa? Ebbene, molto tempo fa c’era una bellissima fanciulla di nome Ina che chiese a uno squalo di portarla su un’altra isola per andare a far visita al suo ragazzo. Durante il viaggio Ina aveva fame e decise di aprire una delle noci di cocco che aveva portato con sé. Non avendo niente con cui aprirla, però, decise di spaccarne una sulla testa dello squalo. Lo squalo se la scrollò di dosso e se la mangiò, ma da quel giorno gli squali hanno la testa leggermente “ammaccata”. Chissà se sia con l’obiettivo di redimersi per questo “leggendario” episodio che nel 2012 le Isole Cook hanno istituito nelle loro acque il più grande santuario degli squali al mondo, uno spazio protetto di ben 1,9 milioni di kmq per i grandi predatori, in cui sono proibiti la pesca, il possesso e la vendita di prodotti di squali, fondamentali per la salute degli oceani e per la cultura di queste isole.

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La leggenda di Raemaru

Un’altra simpatica leggenda riguarda Maru, la montagna che migliaia di anni fa sorgeva orgogliosa sul lato occidentale di Rarotonga. Maru, la più alta dell’isola, copriva i raggi di sole all’alba permettendo agli abitanti del villaggio vicino di dormire più a lungo, con grande invidia di tutti gli altri villaggi. La sua fama non tardò a giungere anche sull’isola di Aitutaki, che invece di montagne non ne aveva nessuna. Vaeruarangi e Tamatoa, i due capi dell’isola, un bel giorno chiamarono a raccolta i loro migliori guerrieri e li istruirono a costruire grandi vakas e di partire alla volta di Rarotonga per conquistare la famosa montagna. Dopo una giornata di mare, i guerrieri avvistarono Rarotonga e l’orgoglioso picco di Maru. Scesero a terra nelle prime ore della notte mentre la gente dormiva profondamente. Corsero alla montagna, ne tagliarono la punta in poche ore, pronti a far ritorno alle loro vakas in attesa. Ma tutto quel lavoro stava producendo parecchio rumore e il villaggio, piano piano, cominciò a svegliarsi e ad accorgersi di ciò che accadeva. Gli abitanti di Aitutaki corsero veloci, aggrappati al loro premio, raggiunsero le loro canoe e si allontanarono prima che gli abitanti del villaggio potessero raggiungerli. Remarono e persero di vista l’isola di Rarotonga prima dell’alba.

Dopo quattro giorni di duro lavoro i guerrieri raggiunsero Aitutaki, ma durante il lungo viaggio tanti pezzi del monte si erano staccati e persi nell’oceano.  Ormai di Maru non era rimasto che una collina. La ribattezzarono allora Maunga Pu, che significa cima della montagna, in ricordo del loro successo.

Nel frattempo, a Rarotonga, la gente sconvolta per aver perso un gioiello così prezioso si preparava alla guerra. La vita non era più la stessa senza la cima di Maru: i raggi di sole dell’alba arrivavano presto disturbando il sonno degli abitanti del villaggio. Tuttavia, prima che le loro canoe da guerra fossero pronte, essi scoprirono che svegliarsi presto aveva i suoi vantaggi.

Era possibile catturare pesci più grandi e migliori all’alba! Ecco allora che la popolazione di Rarotonga decise di rinunciare alla guerra cominciando ad apprezzare questa nuova montagna, ora un po’ più bassa e piatta.

 

 

 

“L’Alfabeto della Moda” nel libro di Sofia Gnoli

Gli abiti castigati di Catherine Deneuve in “Bella di giorno”, i travestimenti camp di David Bowie, i cappellini color sorbetto della regina Elisabetta… Tra consigli di eleganza, curiosità e qualche pettegolezzo, questo alfabeto della moda descrive l’atmosfera intorno a un certo tipo di abito, di accessorio o di stile. Come in un viaggio nel tempo, tornano alla memoria arbitri d’eleganza, creatori di moda e stelle del cinema, che hanno insegnato a milioni di donne come vestirsi, camminare, dissimulare i propri difetti e perfino pensare.

Courtesy of Press Office
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Da Gabriele d’Annunzio a Diana Vreeland, da Coco Chanel fino a Mae West, che affermava falsamente svagata: «mi fanno ridere le donne che vogliono governare il mondo da sole, senza uomini chi è che ti tira su la chiusura lampo sul dietro di un abito?». Tutti suggerimenti che in un momento di totale assenza di regole aiutano a sorridere e a tenere alto il morale. C’è questo e molto altro nel libro della storica della moda Sofia Gnoli dal titolo “L’Alfabeto della Moda“, edito da Carocci con le illustrazioni di Aldo Sacchetti.

About Sofia Gnoli

Sofia Gnoli, studiosa di moda, docente universitaria e giornalista, scrive sul “Venerdì” e sulla “Repubblica”. Fra le sue ultime pubblicazioni: The Origins of Italian Fashion (V&A Publishing, 2014). Con Carocci editore ha pubblicato Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi (8 a rist. 2019) ed Eleganza fascista (2017).

Sfere extra pp. 208, € 14,00

Fashion ID #38 | Ursu Photographer

Nella foto, il fotografo Ursu
Nella foto, il fotografo Ursu

All’anagrafe è Bogdanel Ursu Ionut ma preferisce farsi chiamare Ursu. Nasce in Romania, dove studia arte, per poi trasferirsi in Italia e continuare la sua carriera nel mondo della fotografia dopo aver conseguito il diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma. La pittura è la sua fonte di ispirazione, i colori nelle loro mille sfumature sono la base estetica del suo lavoro. Un lavoro che confina con l’arte. L’universo fotografico di Ursu non è fatto solo di pixel e di tecnologia digitale. Va oltre. Coglie l’attimo espressivo e lo rielabora con creatività grazie ai magici giochi cromatici che solo la luce sa regalare. Perché le immagini non sono mere figure da guardare ma nascondono un pensiero, una concettualità fatta di ricerca, studio e dedizione. Un’attenzione maniacale per il dettaglio, l’insoddisfazione anche quando la fotografia è perfetta sono caratteristiche di pregio che gli consentono di collaborare con numerosi magazine nazionali e internazionali. E, dietro il rigore professionale, la voglia di di affermare il proprio punto di vista attraverso l’ obiettivo per distinguersi dagli altri.

Lo abbiamo incontrato e, dandogli del Tu (anche se la regola giornalistica imporrebbe il Lei), ci ha raccontato la sua storia.

Ti si legge negli occhi che ami il tuo lavoro. Quando hai imparato a fotografare?

Credo circa sei anni fa, non posso dirlo con precisione perché ho sempre lavorato con l’immagine, prima dipingendo.Quindi fotografare è stato come usare un novo mezzo per esprimermi, ho semplicemente presso la macchina fotografica e ho incominciato a scattare.

Hai studiato arte all` Accademia di Roma. Qual`è, se c`è, la connessione tra il mondo della fotografia e della pittura nei tuoi ritratti?

C’è un forte legame e penso lo si noti abbastanza. Se non avessi dipinto prima probabilmente non avrei mai fotografato. La pittura è per me è la base fondamentale di cui avevo bisogno. E’ dall’arte che prendo spunto per realizzare le mie idee nella fotografia. La costruzione di base è pittorica ed amo giocare con questo.

DMAG. Courtesy of Ursu Ph.
DMAG. Courtesy of Ursu Ph.

Quali sono i maestri fotografi a cui ti ispiri?

Helmut Newton, amo il suo mondo, la sua monumentalità, i suoi nudi, le sue storie surreali. Ne ammiro la potenza. Robert Mapplethorpe e la sua poesia sublime così come Herb Ritts e tanti altri. Si tratta di grandi fotografi che hanno una forte visione nel concepire l’immagine.

Pensi che la parola fotografo sia riduttiva?Meglio creativo?

Si assolutamente, allo stesso modo di quando in gergo si dice banalmente “scattare”. Non è “scattare” ma creare un’ immagine, disegnarla, pensarla. Prima bisogna dipingere con la luce. Insomma, è un processo più complesso, anche perché oggi la tecnologia è in continua evoluzione rispetto al passato. Per creare un’ immagine si possono utilizzare tanti mezzi insieme alla macchina fotografica.

Velvet Magazine. Courtesy of Ursu Ph.
Velvet Magazine. Courtesy of Ursu Ph.
Personal project (Devil Poetry). Courtesy of Ursu Ph.
Personal project (Devil Poetry). Courtesy of Ursu Ph.

Sei un perfezionista. Quanto tempo impieghi a terminare la post produzione di un servizio fotografico di moda?

Passo molto tempo a pesare e guadare le fotografie, semplificando il tutto per poi arrivare alla sostanza. Quello che conta è il messaggio che si vuole trasmettere, la storia. Non amo la post produzione invasiva (anche se fatta bene) perché cancella la traccia fotografica e mi distrae da quella che è la realtà visiva pura.

In genere rispetti il mood che ti viene proposto o ti piace giocare d`azzardo con le tue idee?

Se devo lavorare su un mood proposto da qualcun’altro o uno mio non cambia molto perché andrò ad interpretare un’ idea e l’interpretazione resta mia. Come quando un regista lavora su una sceneggiatura. L’ importante è seguire il filo conduttore e poi migliorarlo. Mi piace sperimentare, ma non a caso. Il rischio e l’azzardo fanno parte del vocabolario comune di un creativo. O almeno così dovrebbe essere.

And Men Magazine. Courtesy of Ursu Ph.
And Men Magazine. Courtesy of Ursu Ph.
Noire Project. The Children for Peace Onlus. Courtesy of Ursu Ph.
Noire Project. The Children for Peace Onlus. Courtesy of Ursu Ph.

Hai mai pensato di lanciarti in nuove sfide professionali non confinate alla moda?

Moda o non moda, l’importante è che si lavori con l’immagine. Non c’è un confine fra i vari campi creativi. Vorrei avere tempo per usare l’olio e dipingere ciò che ho fotografato, questo si. Ho tante idee nel cassetto che un giorno vorrei realizzare. Mi piace l’idea che le varie discipline artistiche si contaminino fra di loro in modo creativo.

Uno shooting fotografico richiede un lavoro di squadra. Make up artist e stylist, a volte, possono entrate in conflitto con il lavoro del fotografo. Come ti comporti?

Mi piace ascoltare tutti. E’ fondamentale essere sulla stessa onda, è nell’interesse del fotografo stimolare tutto il team e lavorare insieme per un obiettivo comune.

Gun Fashion  Magazine. Courtesy of Ursu Ph
Gun Fashion Magazine. Courtesy of Ursu Ph

Nel tuo futuro Roma, Milano o l`estero?

Credo che non abbia molta importanza il dove. Il lavoro ti porta sempre in posti diversi. Viaggiare, conoscere nuovi luoghi e nuove culture. E’ questo quello che conta, perché stimola la creatività.

Dagli spazi urbani a Gozo, tutti i benefici dello yoga sull’isola di Malta

Chi pratica lo yoga sa bene quanto il luogo in cui si eseguono gli asana, sia fondamentale per trovare la concentrazione necessaria e per il raggiungimento del benessere atteso. Qualsiasi sia lo stile di yoga che pratichiate, avete mai pensato a partecipare ad un retreat a Malta completamente dedicato a questa disciplina? L’arcipelago posto nel cuore del Mediterraneo, col suo clima dolce, si presta perfettamente a dare il benvenuto agli amanti di questa pratica antichissima, ancora oggi tanto amata e diffusa, offrendo servizi e strutture idonee ad esaltare i risultati dati dall’esercizio, non solo per via delle numerose scuole specializzate che si trovano sulle isole, ma anche grazie a tutti i plus che solo Malta può offrire. La natura che caratterizza l’arcipelago, come potrete facilmente immaginare, si presta felicemente alla pratica all’aperto. Sia che preferiate la scenografica costa per essere accarezzati dalla profumata brezza marina, sia che, invece, preferiate il placido entroterra, troverete luoghi intrisi di un’intensa carica energetica, soprattutto in momenti topici della giornata come le scenografiche albe.

Yoga a Malta_ credits Instagram
Yoga a Malta_ credits Instagram

Quello che forse non sapete è che a Malta è possibile praticare lo yoga all’aperto anche in luoghi più urbani: per esempio sui bastioni di un’antica fortificazione barocca o ai piedi di un monumento storico come ce ne sono tanti in città gioiello quali Valletta, Mdina o Vittoriosa, centri dall’innegabile fascino dove troverete anche boutique hotel elegantissimi ed accoglienti, in grado di offrirvi il confort ideale, ma anche di organizzare sessioni private dove e quando lo desideriate. A Gozo, seconda isola dell’arcipelago è possibile organizzare retreat nelle farmhouse: splendide case coloniche costruite in pietra calcarea, caratterizzata dai tenui colori del miele, e circondate dalla rigogliosa macchia mediterranea. Immaginatevi a srotolare il vostro tappetino in un tranquillo giardino privato, a bordo della vostra piscina e accanto al rosa vivace di una grande bouganville, circondati dalla quiete di questa piccola isola. Tenete anche in considerazione la possibilità di affiancare la pratica dello yoga con altre attività, come le tante discipline sportive outdoor praticabili a Malta.

Yoga a Gozo nell'isola di Malta_credits Courtesy of Malta Tourism Authority
Yoga a Gozo nell’isola di Malta_credits Courtesy of Malta Tourism Authority

Sport a cui ci si può dedicare sia in alternativa, ma anche in una vera e propria commistione di generi: potreste uscire in barca a vela per poi fermarvi in una caletta isolata a meditare al tramonto, oppure potreste uscire in mare per una sessione di yoga sup e sulla tavola entrare in contatto con la nostra energia vitale, ma potreste anche decidere di avventurarvi in un’escursione a piedi o in bici tra le morbide colline della campagna maltese e trovare un angolino tutto vostro dove eseguire la routine preferita. Non dimentichiamoci infine che un soggiorno a Malta sarà davvero di benessere a tutto tondo perché supportato da un’alimentazione sana e rinvigorente a base di prodotti a Km 0 freschi e saporiti, tipici della dieta mediterranea.

Ballerine, non solo scarpe ma espressione di stile dei nostri tempi

 

 

A cura di Cristina Cofano

Un, deux, trois, quatre…Un, deux, trois, quatre…Come una formula, una melodia, un mantra non appena si entra in una scuola di danza. Tutte in fila, perfette nel loro portamento impeccabile e con l’aria sognante, le ballerine sono simmetricamente allineate alla sbarra, ripetendo in modo naturale i loro movimenti sinuosi. Vestite di solo tulle leggero ad evidenziarne la delicatezza, come steli di fiori appena sbocciati dai colori tenui come il rosa, il bianco o il beige.

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La ballerina, la scarpetta più femminile di ogni tempo perchè avvolge il piede come un guantino evidenziandone la bellezza, la sinuosità e la forma nasce nel 1884. La prima scarpa che ogni bambina vuole indossare perché simbolo di libertà: la sua prima scelta di stile. Espressione, come la danza, del proprio io, unico, eccentrico, etereo.
Così Repetto ebbe l’idea di crearne una linea per lo street style.
Riproducendola con materiali più resistenti così che qualunque donna potesse sentirsi libera come una première étoile.
Il suo successo? L’arcobaleno di colori e materiali a disposizione, oltre alla sua comodità, dovuta alla scelta di un pellame di altissima qualità. La scarpa che non è una scarpa perché è come avere le ali con delle ballerine ai piedi. Spesso considerata la meno sexy dal genere maschile, forse invidioso di una bellezza a cui non poteva accedere, a distanza di un secolo dalla sua nascita, viene oggi presentata nella collezione Fall/Winter  uomo… confermando la libertà di espressione del proprio io dei nostri giorni.
Un, deux, trois… liberté.
Photo credits Repetto Official website

Quando Lily-Rose Depp ha incantato il fashion con l’abito da sposa firmato Chanel

A cura di Alessia Tomassini

“La bellezza inizia nel momento in cui inizi ad essere te stesso” è una delle celebri frasi di Coco Chanel.

L’abito da sposa della collezione Primavera/Estate 2017 indossato da Lily-Rose Depp, che ne ha sfoggiato uno rosa confetto tutto ruches con un lungo strascico e romantiche maniche a palloncino, è sicuramente la prova di come una donna può sentirsi bene con sé stessa, indossando un abito che la fa sembrare una principessa. La donna Chanel è una figura femminile perfetta, elegante e raffinata ma anche semplice e pratica. Una donna indipendente che sa cosa vuole e che non ha bisogno dell’aiuto di nessuno se non il suo. Grazie a Chanel lei si è iniziata a vedere come una “persona” e non come un bell’oggetto da sfoggiare. La donna Chanel è uno stile di vita e lo si capisce da come cammina, perché fa del mondo la propria passerella e di ogni giorno una sfilata.

 Oggi finalmente è libera di parlare e di esprimersi come meglio desidera. Questo, però, non accade ovunque, infatti ci sono ancora molti Paesi in cui la sua condizione è subordinata all’uomo.

Riprendendo il tema dell’abito da sposa, indossato dalla figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis , il wedding dress non è sinonimo di praticità, ma il vestito rosa confetto sottolinea la femminilità e l’eleganza, caratteristiche appartenenti all’indimenticata stilista Coco Chanel.

L’attrice si trova al fianco di Karl Lagerfield, conosciuto durante un incontro avvenuto con la madre quando la ragazza aveva solamente otto anni. All’età di 15 anni è diventata ambasciatrice di Chanel, con la quale la mamma aveva collaborato in precedenza.screenshot_20230508-112253_instagram

Un abito del genere non lo si deve indossare lo si deve sentire. Quindi, come si potrebbe immaginare il proprio abito nel giorno più bello della  vita?

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 Photo credits Lily-Rose Depp Official Instagram

Borsa in vimini: dalla nuova “Osier” Jacquemus allo storico cestino di Jane Birkin, un accessorio senza tempo

A cura di Alessandra Sassanelli

Da cestino della spesa utile per il quotidiano a vera e propria icona di stile indossabile in ogni circostanza, da quella più casual a quella più formale. Una tendenza intramontabile e che ritorna ad ogni primavera: è la borsa in vimini, quell’iconico accessorio che immediatamente ci teletrasporta tra i campi fioriti della Provenza o per le vie più chic di grandi capitali europee. Per la nuova stagione spring-summer 23/24 non poteva che essere il designer francese Simon Jacquemus a lanciare la sua borsa in vimini. La famosa “Bambino Long” acquisisce un nuovo design per dare vita alla Bambino Long “Osier”: attraverso un gioco di intrecci orizzontali, la borsa francese dalle linee geometriche squadrate, adesso ricorda proprio quei canestri: l’incrocio dei rami e il colore naturale del vimini si unisce agli iconici toni pastello amati dal designer, realizzando un modello di estrema raffinatezza. jacquemus-osier

Il cestino deve la sua fama alla celebre Jane Birkin, la cantante e attrice britannica naturalizzata francese dopo l’incontro con l’artista Serge Gainsbourg sul set del film francese “Slogan”, che cominciò ad indossarlo anche in città. Jane lo aveva acquistato in un banale mercato di Londra attorno agli anni ’60 e da allora rimase sempre con lei: dal mercato londinese raggiunse il red carpet di Cannes o le serate parigine più chic con Serge. Così a Parigi, dove la cantante aveva ormai messo su famiglia, lanciò uno stile particolare, che fondeva l’originaria eccentricità britannica con l’ereditata eleganza francese: jeans e maglietta tutti i giorni, ma minigonne Paco Rabanne o mini-dress crochet nelle circostanze più glamour. Un mix di raffinatezza e sensualità che l’hanno sin da subito resa un’icona di stile che non passava certo inosservata: con sé, sempre il suo canestro di vimini. jane-birkin-outfit

Un accessorio millenario semplice, ma funzionale, che già dall’XVIII secolo aveva riscosso grandissimo successo tra le donne, proprio in virtù della sua essenzialità. L’uso del cestino di vimini, tuttavia, risale addirittura a migliaia di anni fa, dall’antico Egitto ai Sumeri a tutto il Medio Oriente. La facile reperibilità degli arbusti essiccati e lo sviluppo della tessitura delle foglie, rese l’arte dell’intreccio una delle tecniche maggiormente utilizzate per la creazione di utensili quotidiani vari, soprattutto pensati per spostare le provviste da un luogo all’altro. Non stupisce perciò che questa tecnica sia tuttora ancora molto utilizzata da diverse tribù indigene. Attorno agli anni ’50 poi, la particolarità delle trame intrecciate diffuse l’uso di pochette di paglia tra le donne dell’alta borghesia arricchite da decori vari e divenendone subito un accessorio alla moda, emblema del lusso e dell’agiatezza economica, perché spesso acquistate come souvenir nei viaggi dalle mete esotiche. Soltanto dopo, alla fine degli anni ’60, si arriverà al canestro-status symbol grazie a Jane. 
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Considerata una “anti-borsa” per la sua inconfondibile estetica, dai marché della Provenza  a Saint Tropez, fu presto sfoggiata in tutte le più grandi città. Così quell’unico e storico dettaglio si conferma l’accessorio che ogni donna dovrebbe necessariamente avere nel proprio armadio. Il simbolo di una tradizione culturale antica, ma semplice, basilare, ma felice. Quell’anti-borsa è l’espressione per eccellenza di uno stile di vita lento, nudo, fatto di piccole cose, ma essenziali; è la dimostrazione che, a volte, basta davvero poco per fare la differenza perché ciò che conta è metterci sé stessi, un po’ come Jacquemus, art director che riesce sempre a proiettarsi in quell’Eden provenzale con i suoi design semplici ma raffinati. Un colosso del fashion che ha sempre celebrato le sue origini, quell’amore puro e incondizionato per la sua amata terra. Perché, d’altronde, Jacquemus è semplicità, solarità e delicatezza. In poche parole, è Provenza.

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Jackie Kennedy: l’iconica borsa “1961” diventa un mito come la sua musa

A cura di Annarita Caramico

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Il manico sinuoso, gentile, leggero. La fibbia dorata, fredda e dura. Il cuoio è rigido e morbido al tempo stesso. Il marchio toscano è sinonimo di lusso e qualità. Gentile ma forte. Dietro il riserbo dello sguardo malinconico della sua musa, custodisce indicibili segreti. E la fibbia della sua Gucci le ricorda, appunto, il diario segreto che scriveva da bambina a Southampton.

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Allo stesso modo della First Lady americana, nota per una innata timidezza e un profondo riserbo, l’autenticità  della “Jackie 1961” è racchiusa al suo interno dove gelosamente e con orgoglio è disseminato il monogramma della maison italiana, quelle due “G” mirabilmente intrecciate. E’ possibile certamente immaginare Jackie Kennedy quando la fibbia della sua borsa scatta, prendere i suoi grandi occhiali da sole dietro cui nasconde il mascara colato.

Flash, flash ovunque, le tocca aprirsi in un sorriso. Entra nella limousine, accavalla le gambe e accarezza il cuoio pregiato e finemente lavorato della sua Gucci, quasi la coccola. Ormai è come un’amica fidata. Forse l’unica vera amica. L’unica amica della First Lady, Jackie Kennedy.

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Photo credits Instagram @alexisclaustre

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